1. Quale rilievo sanzionatorio per le violazioni dei doveri matrimoniali? - 2. La crisi dell'addebito - 3. La via d'uscita: la responsabilità civile - 4. I valori sottesi all'impiego della responsabilità civile - 5. I problemi - 6. I precedenti della Corte di Cassazione - 6.1. La sent. n. 9801/2005 (est. Luccioli) - 6.2. La sent. n. 18853/2011 (est. Felicetti) - 6.3. La sent. n. 8862/2012 (est. Dogliotti) - 7. Quali potrebbero essere dei limiti ragionevoli? - 8. Un commento finale - NOTE
Il problema del rilievo sanzionatorio da dare alle violazioni dei doveri matrimoniali si pone sul piano della politica del diritto e riguarda allo stesso modo tanto il divorzio quanto la separazione (nei pochi paesi in cui esiste ancora, fra i quali l’Italia è l’unico in cui costituisce il valico sostanzialmente necessitato per giungere a sciogliere il matrimonio. Nei paesi europei, e più in generale in quelli ove la matrice culturale europea è largamente egemone, come le Americhe, è stato variamente risolto; ma in ogni luogo emerge con estrema evidenza ormai da decenni la tendenza generale a ridurre o addirittura a cancellare del tutto l’accertamento delle responsabilità nella rottura, tranne che per le conseguenze patrimoniali, riguardo alle quali interagisce comunque con altri criteri, aventi fondamento del tutto diverso. Questa evoluzione esprime con chiarezza la tendenza verso una progressiva, strisciante degiuridificazione dei doveri nascenti dal matrimonio imposti dalla legge a tutti i coniugi, legata al crescere – che sembra inarrestabile secondo i valori più comunemente accolti nelle nostre società – dell’idea secondo la quale la relazione stabile che unisce i componenti di una coppia convivente è un fatto privato, governato secondo regole sui doveri reciproci dei coniugi stabilite autonomamente da loro stessi, molte volte ignorando in modo più o meno accentuato il codice dell’etica matrimoniale ereditato dalla tradizione; un codice che in Italia risale anzitutto al Concilio di Trento e poi al modello politico e culturale della codificazione napoleonica. In sintesi estrema, il matrimonio appare oggi per lo più come una semplice modalità di organizzazione delle relazioni interpersonali intime, a connotato sessuale ed eventualmente riproduttivo: ormai si può dunque dire che secondo una larga parte delle nostre società matrimonium non interest rei publicae; non è più un fatto di rilievo Pubblico. Ciononostante almeno in Italia resta sullo sfondo, sottotraccia, poco visibile e per lo più poco confessata, l’idea che occorra in qualche modo scovare una sanzione efficace contro il “colpevole”, magari avvolta nei panni giustificativi di sanzione per la sua immoralità o di premio per la moralità dell’altro. Così se ne mistifica la [continua ..]
Nel nostro diritto la sanzione per la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio esiste da lungo tempo: è l’addebito della separazione, evoluzione modernizzata della tradizionale “colpa”, introdotta dalla riforma generale del diritto di famiglia. Il portato delle novità legislative del 1975 in tema di separazione è stato oggetto di una curiosa vicenda di politica del diritto. È stato surrettiziamente rifiutato dalla Corte di Cassazione, la quale ha continuato fino al 1994-1995 ad applicare, in buona sostanza, la casistica sulla colpa elaborata prima della riforma e ha per lo più indicato come unico elemento di novità la sopravvenuta ammissibilità della separazione anche in mancanza di una colpa. Pertanto ha continuato a ritenere che esistessero due specie di separazione, una per colpa (eufemisticamente rinominata dal legislatore con “addebito”, ma sostanzialmente analoga a quella previgente) e una senza colpa; che la separazione fosse uno stato provvisorio, un periodo di ripensamento in vista dell’auspicata riconciliazione; con la conseguenza, tra l’altro, che sopravvivevano i doveri personali fra coniugi non incompatibili con la vita separata. Il principale fra questi, la fedeltà, era stato però nel frattempo rinominato con la formula anodina di “dovere di particolare rispetto” (che colpiva pressoché soltanto le “infedeltà” non segrete), visto che la sent. n. 99/1974 della Corte costituzionale aveva giudicato illegittimo che il dovere di fedeltà sopravvivesse alla separazione. Nel 1994-1995, con una serie di sentenze la cui capostipite è la n. 10512/1994, la Corte di Cassazione ha finalmente accolto, in armonia con la dottrina più attenta all’evoluzione della cultura e dei costumi, una lettura dell’art. 151 c.c. al tempo stesso più aderente al testo normativo e più consona ai modi di sentire ormai diffusi nella nostra società: ha riconosciuto che la legge prevede un unico tipo di separazione, fondato sull’intollerabilità della prosecuzione della convivenza (art. 151, 1° comma). Un’intollerabilità che la giurisprudenza ha sempre inteso, giustamente, in termini soggettivi: lo sanno benissimo tutti gli operatori, da decenni, nonostante le frequenti declamazioni moralistiche sulla sua oggettività, ma la Corte di [continua ..]
Così compare la novità, in coincidenza cronologica non casuale con la svolta interpretativa degli anni 1994-1995 cui ho fatto cenno sopra: viene scovata la nuova sanzione, il risarcimento del danno per fatto illecito. Non è certo una novità che la disciplina dei fatti illeciti sia utilizzataper supplire a inefficienze o a lacune nella tutela della persona e dei suoi diritti fondamentali. Oggi è ovvio che non ha senso immaginare, quanto alla responsabilità civile, un’immunità di principio tra i componenti della famiglia, per il solo fatto di essere tali. Ma è bene sottolineare – benché non venga spesso ricordato – che anche ieri era lo stesso: basti pensare al risarcimento del danno morale derivante dall’adulterio della moglie, che in passato poteva accompagnare la sua condanna penale, finché l’adulterio era stato reato, cioè fino al 1968. In queste circostanze non si era mai sentita menzionare l’immunità, sicché la sua ovvia inconcepibilità odierna non offre alcun argomento serio a favore dell’impiego della responsabilità civile per sanzionare la violazione dei doveri coniugali, nonostante le frequenti declamazioni in senso opposto di una parte della dottrina. L’introduzione attuale della responsabilità civile nelle relazioni matrimoniali ha avuto il suo stimolo iniziale, molto forte, dalla cresciuta attenzione all’esigenza, fondata su motivi di equità e di giustizia, di risarcire le lesioni dei diritti fondamentali della persona produttive di danni, per lo più soltanto non patrimoniali, in qualunque modo e circostanza si siano verificate. Riguardo a questi danni, mi permetto di osservare, di passaggio, che nonostante i continui proclami della giurisprudenza (e della dottrina) sull’inammissibilità dei danni punitivi nel nostro ordinamento, non è sempre ben chiaro se il risarcimento del danno alla persona, determinato nel suo ammontare in via equitativa, sia davvero compensativo o se invece sia piuttosto un danno sostanzialmente punitivo, benché mascherato. Per quanto in questi anni è apparso alla superficie, la responsabilità civile ha iniziato a penetrare nelle relazioni coniugali proprio a partire da questa attenzione alla tutela dei diritti fondamentali della persona, con lo scopo di sanzionare i comportamenti gravemente [continua ..]
L’attuale diffusione dell’impiego della responsabilità civile generale per sanzionare i comportamenti di un coniuge verso l’altro – che di solito consistono in primo luogo violazioni dei doveri coniugali – nasce da una vicenda paradossale: dall’oggettiva confluenza fra due linee di politica del diritto ispirate a principi e visioni del diritto e delle regole di coesistenza nella società che sono non soltanto profondamente diverse fra loro, ma addirittura in aperta contraddizione l’una con l’altra. Da un lato vi è chi tende a questo modo a rafforzare la tutela della persona, con la finalità ideale di porre al centro la tutela della personalità individuale di ogni donna e di ogni uomo, di valorizzare così al massimo le loro soggettività, le peculiarità idiosincratiche del loro modo di essere. Dall’altro lato vi è chi ha intendimenti ideali opposti e nutre un dissenso più o meno sotterraneo verso il progressivo deperimento delle sanzioni per il coniuge che ha violato i suoi doveri. Questo atteggiamento serpeggia fra i nostalgici dell’etica matrimoniale ottocentesca o di quella tridentina, ma forse non soltanto fra loro. Per costoro la diffusione del ricorso alla responsabilità civile a scopo sanzionatorio costituisce un’efficace strumento per difendere non certo la soggettività della persona, ma al contrario il sistema etico tradizionale del matrimonio (sottinteso: non più seriamente difendibile con il vetusto strumento dell’addebito), con i suoi caratteristici obblighi (art. 143 c.c.) che il sistema legislativo ha per lungo tempo imposto ai coniugi, senza curarsi delle loro scelte eventualmente diverse. Non solo, ma anche per difendere il gruppo “famiglia”, quale espressione tangibile di un progetto originario comune della coppia: alla famiglia mi sembra si finisca così per riconoscere, in nome del principio di responsabilità per le proprie azioni e dell’affidamento creato nell’altro coniuge, qualcosa che sembra abbastanza simile a un interesse suo proprio, sovraordinato rispetto a quello degli individui che ne fanno parte e potenzialmente confliggente con la loro libertà; un interesse, questo, la cui esistenza però, come tutti sanno, è abitualmente negata a livello di proclami di [continua ..]
Se si vuole evitare che la responsabilità civile svolga una funzione restauratrice delle regole del passato, come mi sembra doveroso e come anche la dottrina più “militante” afferma di ritenere opportuno, se si vuole davvero rafforzare la tutela dei diritti fondamentali della persona, allora occorre disegnare dei confini molto precisi al suo impiego, limitandolo ai casi in cui è presente una lesione dei diritti fondamentali della persona estremamente grave, ma soprattutto sorretta da una volontà fortemente e coscientemente determinata a fare il male dell’altro, a farlo soffrire, quasi con spirito da atto emulativo. Non è proprio il caso di impiegarlo, invece, per sanzionare comportamenti magari anche gravemente scorretti e causa di sofferenza per l’altro, ma il fine dei quali è soltanto quello di esercitare la propria libertà di porre fine al rapporto con l’altro e non quello di infliggergli sofferenze maggiori di quelle connesse inevitabilmente con l’andarsene. Ogniqualvolta una coppia si rompe, si lascia, vi è sofferenza: sempre per uno dei due, molte volte per entrambi. Questa sofferenza, a sua volta, può generare un danno alla persona: un danno però che non può essere considerato risarcibile, salvo i casi fuori dal comune in cui genera una vera e propria patologia psichica di rilievo medico-legale. Altrimenti ne deriverebbe una lesione gravissima delprincipio di libertà personale nelle relazioni affettive, tanto nell’iniziarle quanto nel terminarle. È una cosa ovvia e banale, ma forse è bene ricordarlo: sia secondo i principi morali comunemente accettati, sia secondo gli atteggiamenti psicologici socialmente più diffusi, il rapporto coniugale d’oggi è fondato sull’amore reciproco. Quando questo finisce o non è più reciproco restano travolte la ragion d’essere e, in fondo, la moralità stessa del rapporto di coppia sul quale il matrimonio è fondato. Ciò significa che ciascuno dei due coniugi ha la libertà di andarsene, di porre fine al rapporto, magari anche con l’intenzione di avviarne un altro o di lasciargli libero spazio, se già avviato: divorziare fa ormai parte, incontestabilmente, dei diritti fondamentali riconosciuti a ogni essere umano, come più volte confermato sia dalla nostra [continua ..]
Negli ultimi 15 anni, cioè da quando il problema è diventato attuale e discusso, i precedenti di legittimità che ammettono la risarcibilità del danno fra i coniugi sono al momento solo 3, mentre molto maggiore è il numero delle sentenze di merito che seguono tale orientamento [99]. Un dato che merita di essere sottolineato è che in due dei tre precedenti di legittimità il procedimento giudiziario per il risarcimento del danno è stato iniziato in modo autonomo, dopo la conclusione dei procedimenti per giungere alla rottura della convivenza e poi del matrimonio (separazione, annullamento, divorzio). Invece nella gran parte dei precedenti di merito pubblicati la richiesta di risarcimento è formulata e decisa nel corso del procedimento di separazione giudiziale. È ovviamente incomprensibile, purtroppo, se le sentenze pubblicate siano rappresentative dell’universo delle sentenze in materia. Mi permetto comunque di dubitarne: anche indipendentemente dagli orientamenti promozionali della macchina mediatica cendoniana, ciò che fa notizia è il nuovo, cioè l’ammissione del risarcimento, mentre non la fa l’ennesima ripetizione di quanto è stato per lungo tempo consueto, cioè il suo rifiuto.
Il caso non è dei più consueti: la moglie, ottenuti sia la dispensa ecclesiastica per il matrimonio rato non consumato (provvedimento non delibabile) sia il divorzio per inconsumazione, agisce successivamente in giudizio per ottenere il risarcimento del danno per la lesione di un diritto fondamentale della persona, quello di avere una normale vita sessuale nel matrimonio ed eventualmente di realizzarsi nella maternità; il marito infatti, benché consapevole di essere affetto da impotenza al coito, non glielo aveva rivelato prima delle nozze. La moglie fa valere una lesione dei diritti fondamentali della persona, e precisamente del diritto a una normale vita sessuale nel matrimonio; è una lesione dolosa, poiché consiste in un deliberato inganno, ed è di straordinaria gravità quanto al contenuto: secondo il comune modo di sentire, infatti, una simile malformazione fisica è incompatibile con una normale relazione coniugale. La moglie non fa dunque valere una violazione dei doveri nascenti dal matrimonio. Eppure nel caso sarebbe stata presente secondo la giurisprudenza in tema di addebito, poiché il marito aveva gravemente mancato di sincerità verso la moglie, con il suo deliberato silenzio sulla propria impotenza. Sul punto la Corte precisa «che è appunto l’omessa informazione che integra l’illecito», in quanto viola l’obbligo «di lealtà, di correttezza e di solidarietà, che si sostanzia anche in un obbligo di informazione di ogni circostanza inerente le proprie condizioni psicofisiche e di ogni situazione idonea a compromettere la comunione materiale e spirituale alla quale il matrimonio è rivolto»; un obbligo esistente anche prima del matrimonio, nella prospettiva di contrarlo. In questo suo primo precedente la Corte pone in evidenza che l’illiceità consiste nella violazione di un diritto fondamentale della persona, la quale contiene in sé anche una violazione dei doveri nascenti dal matrimonio. La distinzione tra violazione dei diritti fondamentali della persona e violazione dei doveri nascenti dal matrimonio è proclamata a gran voce, ma tutt’altro che chiara e netta; non a caso.
Il caso: la moglie, già separata consensualmente, agisce successivamente in modo autonomo per il risarcimento del danno dovuto alla lesione dei suoi diritti fondamentali: come motivo di questa lesione adduce la notorietà della relazione extraconiugale del marito che, a quanto sembra di capire, era precedente alla separazione. La sentenza d’appello aveva respinto la richiesta della moglie osservando che questa non aveva fatto valere l’infedeltà ai fini dell’addebito. È evidente, mi sembra, un grave errore motivazionale dell’appello; siccome questa era stata l’impostazione della causa, neppure era stato compiuto un accertamento sulla fondatezza delle pretese della moglie. A quanto sembra in primo grado vi era stata una consulenza tecnica d’ufficio, ma non se ne conoscono gli esiti. I giudici, dopo aver ribadito che la violazione dei doveri matrimoniali e la lesione dei diritti costituzionalmente garantiti della persona non si identificano, precisano che la violazione dei primi non è di per sé fonte di danno non patrimoniale risarcibile, trattandosi di un «pregiudizio derivante da violazione di legge ordinaria» e non della «compromissione di un interesse costituzionalmente protetto», come invece richiesto dalla giurisprudenza di legittimità in tema di risarcibilità del danno non patrimoniale alla persona. I giudici sottolineano poi con attento puntiglio i limiti entro i quali si può riconoscere la risarcibilità del danno: vi dev’essere un preciso nesso di causalità fra la condotta dell’un coniuge e il danno subito dall’altro; «la rilevanza e le caratteristiche fattuali» della violazione della fedeltà sono diverse ai fini dell’addebito e del risarcimento (è qui evidente l’allusione alla questione del nesso causale con l’intollerabilità ai fini dell’addebito); il danno, infine, «non può sussistere nella sola sofferenza psichica», ma deve consistere nella lesione della salute o in «atti specificamente lesivi della dignità della persona». Da tutto ciò il principio di diritto, che merita di essere riportato integralmente: «i doveri che derivano ai coniugi dal matrimonio hanno natura giuridica e la loro violazione non trova necessariamente sanzione unicamente nelle misure tipiche previste dal [continua ..]
Il caso: la moglie chiede in sede di separazione giudiziale, fra l’altro, l’addebito al marito per violazione del dovere di fedeltà e il risarcimento del danno per la stessa ragione. I giudici di merito avevano accolto la richiesta di addebito e respinto invece quella di risarcimento del danno. Subito all’inizio della sentenza vi è un’affermazione apparentemente piana, ma che risulta poi determinante e contraddice in modo aperto, forse senza avvedersene, l’affermazione delle due sentenze precedenti (ben esplicitata soprattutto nerlla seconda), le quali escludono che la violazione dei doveri matrimoniali e la lesione dei diritti fondamentali della persona costituzionalmente garantiti si identifichino: «per ragioni sistematiche – si legge – va esaminato dapprima il ricorso incidentale: si censura l’addebito per violazione dell’obbligo di fedeltà a carico del marito e, se tale censura fosse accolta, rimarrebbe assorbito il motivo del ricorso principale circa il risarcimento del danno per tale violazione». La differenza attentamente indicata nelle sentenze precedenti è dunque sparita e le cause che possono produrre il risarcimento del danno sembrano identificarsi con quelle che possono produrre l’addebito. La motivazione è molto frettolosa: si limita a richiamare il «nuovo orientamento», affermando che «rileva proprio la qualità di coniuge e la violazione di obblighi nascenti dal matrimonio che, da un lato è causa di intollerabilità della convivenza, giustificando la pronuncia di addebito, con gravi conseguenze, com’è noto, anche di natura patrimoniale, dall’altro, si configura come comportamento (doloso o colposo) che, incidendo su beni essenziali della vita, produce un danno ingiusto, con conseguente risarcimento, secondo lo schema generale della responsabilità civile». Poste le cose in questi termini, mi sembra che il risarcimento del danno altro non sia se non una nuova versione dell’addebito, che vorrebbe essere aggiornata ai tempi; della lesione dei diritti fondamentali della persona, oggetto di garanzia costituzionale, non vi è più traccia.
Questo è lo stato attuale della giurisprudenza di legittimità; per mancanza di tempo e di spazio non posso analizzare la giurisprudenza di merito. In ogni caso, davanti a questa deriva, che ritengo estremamente pericolosa tanto sul piano culturale quanto sul piano sociale e della pratica forense, credo – come già detto in precedenza – che sia necessario identificare dei limiti ragionevoli. L’impiego della responsabilità civile di cui all’art. 2043 c.c. dovrebbe essere rigorosamente circoscritto ai casi in cui un coniuge ha tenuto nei confronti dell’altro condotte di straordinaria gravità morale, che vadano ben al di là dell’inadempimento dei doveri assunti con il matrimonio (un caso emblematico è quello deciso dalla nota sentenza del Trib. Firenze 13 giugno 2000) e che: · giungano fino a integrare fattispecie di reato; oppure · siano lesive dei diritti fondamentali della persona, indipendentemente – questo va sottolineato con forza! – dal fatto che gli interessati siano o non siano legati fra loro dal matrimonio, sicché potrebbe verificarsi anche all’interno di una coppia non sposata; oppure · esprimano un vero e proprio stravolgimento del significato stesso del rapporto coniugale, con una dolosità specifica particolarmente intensa: vale a dire rendano manifesto che un coniuge ha strumentalizzato il matrimonio per fini che il sentire comune d’oggi ritiene che non gli si confacciano e che ne siano un tradimento ideale (questo potrebe essere il caso della sent. n. 9801/2005, mentre non sembra proprio essere quello della sent. n. 18853/2011, né tanto meno quello della sent. n. 8862/2012). Con riguardo specifico a quest’ultima ipotesi, mi sembra indispensabile ai fini della risarcibilità del danno che il rapporto di convivenza non si protragga per un periodo di tempo significativo dopo che la vittima ha avuto la consapevolezza dei suddetti stravolgimenti, strumentalizzazioni, lesioni subite: in caso contrario il suo comportamento manifesta una sorta di acquiescenza, che vale a interrompere il nesso causale fra la condotta lesiva e il danno. Tale interruzione del nesso di causalità presenta una sostanziale somiglianza funzionale (e morale) con [continua ..]
Che dire, che commento finale proporre? Credo che con la responsabilità civile fra coniugi per la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio, così come si va delineando nella giurisprudenza, si sia generato un mostro: una sorta di mina vagante che impedirà di chiudere in modo definitivo la controversia coniugale con la separazione legale (salvo la tappa successiva, di solito non più drammatica, del divorzio), restando sempre aperta la possibilità di un’azione in giudizio per il risarcimento del danno secondo l’art. 2043 c.c., entro il termine di prescrizione di 5 anni. In questa situazione qual mai avvocato potrà consigliare con serena tranquillità di accettare una separazione consensuale, sapendo che il cliente è a rischio di una successiva azione per il risarcimento del danno? Certo, si potrebbe pensare di inserire nell’accordo consensuale una clausola di rinuncia ad agire per il risarcimento del danno; ma forse qualcuno potrebbe obiettare – credo a torto – che vi osterebbe la qualifica di indisponibilità che connota i diritti fondamentali della persona. Questa deriva ha già avuto e sempre di più avrà l’effetto di moltiplicare le occasioni di conflitto, perché promuove la litigiosità delle parti, esito di cui non si sente proprio l’esigenza, offrendo ottime possibilità di sviluppo per l’attività di quegli avvocati – di certo non gli avvocati iscritti all’AIAF! – che praticano il diritto di famiglia con lo stesso atteggiamento con cui è giusto praticare il diritto contrattuale, cioè con il fine di ottenere la vittoria per il cliente. Correlativamente, credo che aumenterà invece le difficoltà d’azione per quegli avvocati che invece – correttamente – ritengono che nelle cause di diritto familiare la vittoria consista piuttosto nel raggiungimento di una soluzione che sia accettabile per entrambe le parti anzitutto sul piano emotivo, e che proprio per questo sia tale da sedare gli animi e quindi da reggere nel tempo, senza generare conflitti ulteriori. Inoltre mi sembra difficilmente evitabile che questa deriva nuoccia fortemente alla certezza del diritto, vale a dire alla prevedibilità delle decisioni giudiziali: quando invece una giurisprudenza saggia, insieme con un saggio modo di svolgere la professione, dovrebbero [continua ..]