1. L'intervento penale nel contesto delle famiglie straniere - 2. Il reato di abuso dei mezzi di correzione e di disciplina - 3. Povertà, marginalità, elemosina: maltrattamenti nei confronti dei minori? - 4. I maltrattamenti violenti in famiglia - 5. La violenza sessuale intrafamiliare - NOTE
La trasformazione, irreversibile, dell’Italia in una società multiculturale non avviene facendo perno sul mondo del lavoro, che è centrale solo per l’occasione dell’ingresso dei migranti, e nel quale l’impiego di stranieri è ancora limitato soprattutto ad alcuni settori e le seconde generazioni non hanno ancora promosso la mescolanza in ogni ambiente che si ritrova nelle società più mature sotto questo aspetto. Il tema della multiculturalità è invece emerso sinora prepotentemente nel campo scolastico – in relazione al quale è sorta una riflessione teorica e pratica davvero importante sull’intercultura – e, necessariamente, imprescindibilmente attorno al ruolo della famiglia. E non potevano esserci dubbi, dato il ruolo cruciale che la famiglia svolge in ogni società, per cui i problemi che sorgono al suo interno e nelle relazioni interetniche familiari si trovano in maggiore evidenza. La famiglia è contemporaneamente il principale motore dell’integrazione e della convivenza, ma anche il luogo nel quale il conflitto (fra identità e differenze, fra tutela delle minoranze e tutela dei diritti individuali ...) si fa più aspro, e più laboriosa è la mediazione: perché in relazione ai bambini e alla famiglia «le parti, sia private, sia pubbliche, sono spinte a difendere in modo ‘integralistico’ i propri valori, poiché è in gioco la loro identità culturale» [144]. Spesso il “conflitto” fra norme culturali assume rilevanza giudiziaria, civile o penale; l’intervento giudiziario relativo a famiglie straniere però è problematico anche perché il giudice deve utilizzare norme vecchie, inadeguate, in buona parte inservibili. Gli strumenti normativi e giurisprudenziali con i quali l’Autorità Giudiziaria affronta le questioni civili e penali che riguardano i minori e le famiglie straniere, infatti, sono quelli pensati e da sempre applicati nella realtà nazionale. O meglio, alla società italiana esistente o riconosciuta nel momento in cui il legislatore disponeva le strutture e gli strumenti d’intervento: quindi sostanzialmente, per quello che riguarda il diritto civile, alla situazione italiana degli anni ’70; per il diritto penale, l’impianto risale [continua ..]
Per quanto riguarda il reato di cui all’art. 571 c.p. l’evoluzione della giurisprudenza in relazione al concetto stesso di correzione [147] toglie certamente gran parte di rilevanza alla specificità delle condotte dei genitori stranieri: la correzione violenta, o altri tipi di metodi correttivi in contrasto con i principi dell’ordinamento italiano, anche se praticati nella popolazione di provenienza dei genitori, devono essere censurati traendone le conseguenze anche sul piano civile. Significativa la vicenda di un padre della Costa d’Avorio che come mezzo di punizione (oltre all’abituale uso delle percosse considerate indispensabili) utilizzava spesso una polvere urticante capace di irritare la parte e di provocare dolore o bruciore. Il padre viene denunciato per abuso di mezzi di correzione nei confronti delle figli minori e contestualmente il Tribunale per i minorenni interviene allontanando le minori dalla famiglia [148]. Egualmente decide il Tribunale per i minorenni di fronte ad un padre che picchia ripetutamente la figlia «quando la vede in compagnia di ragazzi italiani, perché egli vuole che sposi un connazionale ovvero un musulmano». La condotta del padre viene riconosciuta gravemente pregiudizievole «secondo principi propri della nostra cultura e quindi del nostro diritto di famiglia» [149]. Nel caso di una cittadina nigeriana, la cui figlia oltre ad essere stata aggredita verbalmente dalla madre, presentava segni di percosse alle gambe e ferite sul cuoio capelluto, provocate verosimilmente dal taglio indiscriminato di capelli con forbici da cucina, la madre sosteneva essersi trattato di un fatto meramente occasionale, e come tale fatto andasse riportato nella giusta dimensione di un incidente di percorso nel naturale rapporto genitore e figlia, che aveva visto la sua genesi nell’esigenza della madre di tagliare personalmente i capelli alla figlia e di usare la maniera forte per fronteggiare l’isterico e ingiustificato rifiuto della piccola; i giudici del merito, lamentava l’imputata, avevano inoltre omesso di valutare il contesto culturale di provenienza dell’imputata, proveniente da un paese, come la Nigeria, con regole educative del tutto diverse dalle nostre. La Suprema Corte, ribadendo che «integra la fattispecie criminosa de qua l’uso in funzione educativa del [continua ..]
Si tratta certo del reato più significativo, sia per l’evoluzione che esso ha avuto nella società italiana da quando venne introdotto nel 1933, sia nello specifico del confronto con le culture dei migranti. Non vi norma penale più indeterminata, e più soggetta ad essere riempita con un contenuto culturale, di quella che punisce «chiunque ... maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità», laddove lo stesso dizionario non va oltre la definizione del maltrattare come il «trattare male con parole o con atti». Cosa significa allora trattare male? Si è partiti da «una visione angusta del concetto di “maltrattamenti”, ancorata ad un’unica esperienza del passato: quella di un componente della famiglia (ma potremmo anche dire tranquillamente: dell’uomo), che abitualmente percuote e prevarica gli altri membri della famiglia (e cioè moglie e/o i figli) con espressioni minacciose ed ingiuriose»; si è arrivati a considerare maltrattamenti le azioni od omissioni rivolte alla persona offesa «in modo tale da lederne la personalità» (Cass., Sez. VI, ud. 27 ottobre 1997, n. 1146): così da potersi affermare «che l’interesse protetto dalla norma non è tanto la integrità fisica o quella morale in quanto tali, essendo tali beni tutelati direttamente da altre norme, ma essenzialmente quella complessa ed articolata galassia, che è la personalità o dignità del soggetto debole del rapporto familiare» [152]. Rispetto a questo reato, nel confrontarsi con la società multiculturale sin dall’inizio i giudici sono sembrati essere in bilico fra una concezione “oggettiva” del reato, che privilegi gli aspetti di fatto del comportamento, e una considerazione più ampia della relazione familiare che inquadri in modo “soggettivo” il comportamento. Così, per il pretore di Torino «integra l’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 572 c.p. l’impiego abituale di figli minori nell’accattonaggio, dovendosi equiparare tale comportamento ad una ipotesi di maltrattamenti s’intesa come aggressione al bene della dignità delle persone» [153]. Di diverso avviso sullo stesso caso è [continua ..]
Quando invece all’interno del nucleo familiare il rapporto sia improntato a “vessazioni, minacce e violenze” nei confronti della moglie (ma anche ovviamente dei figli), la giurisprudenza è portata ravvisare il reato di maltrattamenti. In un primo caso, un cittadino algerino di fede islamica, era accusato di aver sottoposto ripetutamente la moglie (cittadina italiana) e i due figli a violenze, minacce e percosse, rivolte ad imporre loro il rispetto delle regole religiose mussulmane, giungendo a puntare un coltello alla gola della figlia minorenne per indurla a rispettare il digiuno del Ramadan e a portare lo chador a scuola. Il giudice, ritenuto sussistente l’elemento materiale del reato, affronta il problema dell’elemento psicologico, rilevando che «può diventare estremamente difficile per il Giudice l’indagine in ordine all’elemento psicologico di un reato come quello di maltrattamenti, alcune condotte materiali realizzatrici del quale possono essere state poste in essere allo scopo, ritenuto non solo legittimo ma addirittura dovuto dall’autore, di adattare i comportamenti dei familiari (...) alla regola coranica e ciò al fine (soggettivamente inteso come benevolo) di procurare la salvezza». Il giudice però rileva anche egli era da molti anni in Europa occidentale (aveva compiuto gli studi a Parigi prima di trasferirsi in Italia), per cui era indubbiamente «in condizioni di percepire, comprendere ed esattamente valutare, proprio perché nella sua esperienza di vita e nel suo bagaglio culturale erano entrati e si erano sedimentati anche i valori e le regole della società occidentale (...), che le imposizioni poste in essere, da un certo momento, nei confronti dei familiari, le condotte prevaricatrici, le umiliazioni (...) non potevano che avere, così come è poi accaduto, un effetto devastante per il riscontro di sofferenza che ne è derivato». Riteneva perciò sussistente anche il dolo del reato di maltrattamenti e lo condannava [161]. La Suprema Corte confermava più volte questo orientamento, affermando che «l’elemento soggettivo del reato non può essere escluso dalla circostanza che il reo sia di religione musulmana e rivendichi perciò, particolari potestà sul proprio nucleo familiare» [162]. La Cassazione giudicava anche irrilevante [continua ..]
Sono diversi i casi nei quali un immigrato viene accusato di reati contro la libertà sessuale della moglie e questi si difende evidenziando che nella propria concezione culturale la donna ha una posizione subordinata anche nei rapporti attinenti la sfera sessuale. In un primo caso, la vicenda è quella di due giovani immigrati marocchini, sposatisi a seguito di matrimonio combinato dai genitori della sposa. Dopo alcuni giorni dall’inizio della convivenza, il marito costringe con la violenza la moglie ad avere un rapporto sessuale; la cosa si ripete nei giorni successivi, finché la moglie si allontana e denuncia il marito. Questi si difende, tra l’altro, eccependo la propria ignoranza inevitabile della legge penale violata e la mancanza del dolo generico: l’imputato sostiene di avere incolpevolmente ignorato che in Italia la violenza sessuale intraconiugale costituisce reato (tale non è in effetti in Marocco, n.d.r.) e che, di fatto, ignorava la coazione esercitata sulla moglie dai genitori di lei per obbligarla al matrimonio. Secondo la Corte di Cassazione [167], invece, le «circostanze invocate con il ricorso (pretese usanze marocchine, pretesa ignoranza della coazione della volontà della moglie da parte dei genitori, prima settimana di matrimonio, rispetto della ritrosia della moglie, ecc.) non sono assolutamente idonee a dimostrare, da un lato, la mancanza di dolo generico e, dall’altro, la assoluta inevitabilità della ignoranza della legge penale italiana in materia di reati sessuali»; ignoranza cui l’imputato poteva rimediare adempiendo «con il criterio della ordinaria diligenza, al c.d. ‘dovere di informazione’, ossia all’obbligo di espletare ogni utile accertamento per conseguire la conoscenza della legislazione vigente» [168]. In alcuni casi la tensione che si crea nella coppia per il rifiuto della moglie di avere rapporti sessuali (oppure rapporti sessuali “non ordinari”) per la reazione violenta del marito viene considerata in concorso con il reato di maltrattamenti. È questo il caso di un immigrato marocchino, che ricorre contro la decisione di merito, che sarebbe stata viziata da «un pregiudizio etnocentrico», in quanto avrebbe «applicato schemi valutativi, tipici della cultura occidentale, senza rispetto delle esigenze di integrazione [continua ..]