Premessa - 1. Il bene tutelato - 2. La condotta: la minaccia e la molestia - 3. Reato di mera condotta o reato causale? - 4. La reiterazione delle condotte e la soglia della tipicità - 5. L'elemento soggettivo - 6. Le circostanze aggravanti - 7. La querela, le misure cautelari, l'ammonimento, le intercettazioni - 8. Conclusioni - NOTE
Con il termine “stalking”, tratto dal linguaggio tecnico della caccia e che letteralmente significa “fare la posta, braccare, seguire, pedinare, perseguitare”, si fa riferimento a un fenomeno di molestie assillanti e cioè un insieme di comportamenti ripetuti ed intrusivi di sorveglianza, controllo, ricerca di contatto e comunicazione, che talora degenera nella vera e propria violenza, nei confronti di una vittima che non gradisce questi comportamenti, fonte di fastidio, preoccupazione, se non vera e propria paura-ansia o, comunque, di uno stato di sofferenza psicologica (gli studiosi parlano di “sindrome delle molestie assillanti”) [1]. A livello comunitario sollecitazioni all’introduzione di una specifica fattispecie per combattere il fenomeno criminale in questione provenivano dalla Raccomandazione Rec (2002)5 del Consiglio d’Europa, adottata il 30 aprile 2002, in materia di protezione delle donne dalla violenza, e dal Terzo Summit dei Capi di Stato e di Governo degli Stati membri del Consiglio d’Europa, tenutosi il 16 e 17 maggio 2005 a Varsavia, nel cui ambito è stata avviata una Campagna per combattere la violenza contro le donne, inclusa la Violenza domestica, il cui progetto tecnico è stato approvato dal Comitato dei Ministri il 21 giugno 2006. La Decisione n. 803/2004/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 21 aprile 2004 ha istituito un programma d’azione comunitaria (2004-2008) per prevenire e combattere la violenza contro i bambini, i giovani e le donne e per proteggere le vittime e i gruppi a rischio (programma Daphne 11). Nel 2006 è stata istituita altresì la Task Force del Consiglio d’Europa per combattere la Violenza contro le Donne, inclusa la Violenza Domestica, con il compito di valutare i progressi conseguiti a livello nazionale, nel corso dell’indicata Campagna [2]. Da ultimo la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Istanbul, 11 maggio 2011) prevede all’art. 34 – Atti persecutori (Stalking) – che «le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per penalizzare un comportamento intenzionalmente e ripetutamente minaccioso nei confronti di un’altra persona, portandola a temere per la [continua ..]
La nuova fattispecie di atti persecutori, pur se inserita tra i delitti contro la libertà morale, può essere interpretata come una fattispecie plurioffensiva, volta a tutelare non solo la libertà di autodeterminazione della vittima, ma anche la tranquillità personale e la salute mentale e fisica. La tranquillità individuale è considerata come situazione prodromica alla tutela della libertà morale in senso proprio e costituisce uno degli aspetti del più generale interesse alla “privatezza”, all’intangibilità della sfera della vita privata; lo stalking si caratterizza proprio come forma di aggressione totale alla vita privata della persona. La fattispecie in esame tutela anche la salute psicofisica della vittima (l’integrità individuale), – come emerge laddove la norma richiede che la condotta sia realizzata in modo da cagionare un grave stato di ansia e di paura, o un fondato timore –, che viene compromessa a lungo termine dalla sopportazione delle minacce o delle molestie che offendono la serenità psichica della vittima, al punto da poter provocare ansia e paura [11].
Il legislatore italiano ha introdotto un delitto abituale proprio, come emerge dalla richiesta di condotte reiterate, così rilevando una caratteristica fondamentale del fenomeno in questione, tipicamente realizzato attraverso la reiterazione di condotte invadenti, che spesso comportano un’escalation tragica di rischio che dalle attenzioni moleste può giungere sino alla violenza [12]. I singoli atti molesti, invadenti, saranno legati fra loro dal vincolo dell’abitualità, cioè della continuità e ripetitività nel tempo; abitualità che non è esclusa da intervalli alternati alla serie di episodi lesivi, se questi intervalli non avranno una durata tale da interrompere la fattispecie criminosa. L’art. 612 bis c.p. precisa che l’agente minaccia o molesta con “condotte reiterate”, utilizzando il generico riferimento a condotte reiterate solo per precisare che la condotta di minaccia o molestia può assumere le più svariate modalità e deve avere il carattere dell’abitualità, fermo restando che tali condotte devono costituire lo strumento per minacciare o molestare taluno. Le singole condotte possono non essere in sé già punibili, non esprimere una minaccia ex art. 612 c.p. o una molestia exart. 660 c.p., ma la minaccia e la molestia può derivare dalla ripetizione della medesima condotta o dalla realizzazione di una pluralità di condotte diverse che siano tali, complessivamente valutate, – per la loro insistenza e caparbietà in disprezzo della volontà della vittima o comunque con assoluta indifferenza per i suoi desideri –, da esprimere in sé una minaccia o una molestia. Queste ultime, a loro volta, devono essere dirette a conseguire gli eventi psicologici indicati dalla norma, devono essere realizzate in modo da provocare un perdurante e grave stato di ansia o di paura o indurre un fondato timore o costringere a cambiare le abitudini di vita. Le condotte reiterate possono comportare una minaccia, termine con il quale si indica una condotta «idonea non solo a prospettare un male futuro, ma ... anche a incutere timore alla persona offesa, tenendo conto proprio del contesto ... esistente» (par. 2). Per l’interpretazione della forma di condotta indicata con il verbo “molesta” [continua ..]
La giurisprudenza pressoché uniforme [14] e la dottrina prevalente interpretano la fattispecie in esame come reato di evento, valorizzando l’utilizzo di verbi pregnanti propri della causalità, come cagionare o costringere [15]. In tale direzione si può osservare che il carattere perdurante dello stato di ansia e di paura si attaglia maggiormente ad un evento (psicologico), in quanto si potrà parlare di perduranza solo rispetto ad uno stato di ansia e di paura che ha una durata nel tempo e che, quindi, si è già verificato [16]. Nel Dossier del Servizio Studi n. 124/09 al d.d.l. AC 2232 e n. 114 al d.d.l. n. 1505 si richiede la verificazione dell’evento. La Commissione Giustizia della Camera dei deputati aveva espressamente proposto di riformulare la norma in termini di pericolo concreto per evitare i difficoltosi accertamenti processuali sullo stato patologico, ma l’Aula ha riportato il delitto alla struttura originaria per evitare il rischio di punire fatti sostanzialmente inoffensivi [17]. Nel suo parere sul decreto il CSM lo interpreta come reato di danno e di evento. La Suprema Corte precisa che si tratta di eventi alternativi [18]. La stessa severità del trattamento sanzionatorio previsto (reclusione da sei mesi a quattro anni) è considerata più compatibile con una fattispecie incriminatrice di effettiva lesione, piuttosto che di esposizione a pericolo del bene protetto. Emerge immediatamente, però, la difficoltà di utilizzare i parametri indicati nel nuovo art. 612 bis, soprattutto il grave stato di ansia e di paura e il fondato timore, per stabilire la soglia dei comportamenti punibili, poiché si tratta di eventi psicologici di difficile accertamento e di carattere prettamente soggettivo, in quanto la reazione può essere assolutamente diversa in differenti vittime; la tipologia e la frequenza dei comportamenti (la soglia della tipicità) che possono far scattare la reazione in questione è assolutamente soggettiva, in base alla personalità, alle esperienze e al contesto culturale di riferimento. La paura, l’ansia, lo stress o sentimenti simili non possono costituire elementi costitutivi di una fattispecie penale: «non sono standardizzabili e non possono rappresentare attendibili parametri per l’accertamento di un [continua ..]
Il problema che pone una fattispecie abituale è determinato dalla difficoltà di stabilire la soglia della tipicità in termini di offensività e meritevolezza di pena, per consentire il rispetto del principio di tassatività. A tal proposito si deve, comunque, considerare che, come stabilito per la fattispecie di maltrattamenti in famiglia – reato abituale – ex art. 572 c.p., la fattispecie si perfeziona nel momento in cui si compie quell’atto «che, sorretto dal dolo ed unendosi ad altri analoghi già precedentemente compiuti», realizza l’offesa al bene giuridico tutelato; la consumazione dopo questo momento potrà protrarsi fintantoché il soggetto attivo continuerà a porre in essere atti lesivi del bene giuridico tutelato. Il problema potrebbe apparentemente assumere un minore rilievo se si interpreta la fattispecie come reato di evento per la cui consumazione si dovrà, comunque, verificare l’evento descritto, quale conseguenza delle condotte reiterate; se si interpreta la fattispecie come reato di pericolo concreto, inteso come qualità della condotta (idoneità a cagionare), si porrà in maniera più stringente il problema interpretativo in questione. Nella prima ipotesi, per quanto possa sembrare discutibile, laddove si realizzi l’evento, si potrebbe ritenere integrato il requisito della reiterazione anche in presenza di due sole condotte moleste (pur sempre di reiterazione si tratta). Contro una simile interpretazione, però, indipendentemente dal fatto che si interpreti la norma come fattispecie causale o di pericolo, si deve ricordare che quando, nel descrivere la condotta incriminata, il legislatore ricorre ad «un termine che esprime un significato di durata, di protrazione, di reiterazione nel tempo, il legislatore indica puntualmente una caratteristica strutturale della condotta e dichiara penalmente rilevante soltanto quella condotta dotata di tale struttura perché la giudica la sola pregna di contenuto offensivo per il bene o comunque perché ritiene meritevole di sanzione soltanto l’incidenza negativa sul bene protetto proveniente da quel tipo di condotta plurima» (sul piano causale anche un singolo atto può incidere profondamente sul bene protetto, ma non sarà ancora l’offesa penalmente rilevante perché il [continua ..]
Per realizzare la fattispecie di atti persecutori si richiede il dolo generico. Laddove si interpreta la norma come reato causale si dovrà accertare la volontà dell’evento, come affermato dalla giurisprudenza [49]; se si interpreta come reato di pericolo, sarà sufficiente accertare la volontà di realizzare i comportamenti reiterati e, in base all’interpretazione più rigorosa, idonei a cagionare l’evento. La giurisprudenza di merito precisa, infatti, che «Ai fini dell’integrazione del reato di atti persecutori di cui all’art. 612 bis c.p. devono ricorrere sia l’elemento oggettivo che quello soggettivo, ..., mentre il secondo è connotato dal dolo generico comprendente anche la rappresentazione dell’evento come conseguenza delle reiterate condotte tenute dal reo» [50]. L’accertamento della rappresentazione e della volontà dell’evento, che rientrerebbe nell’oggetto del dolo, rende ulteriormente problematica l’interpretazione della fattispecie come reato causale perché molto spesso l’autore non agisce per cagionare un grave e perdurante stato di ansia e di paura, un fondato timore o un cambiamento delle abitudini di vita. In base agli studi psichiatrici, anzi, «lo stalker può essere convinto che i propri atti siano graditi alla vittima, subito o in futuro, e ignora ogni evidenza in senso opposto» [51]. Da ultimo la Suprema Corte ha precisato che «In tema di atti persecutori, non è richiesto, perché si configuri il reato, che specifico fine della volizione sia anche l’evento di danno, essendo sufficiente la possibilità di fondatamente prevederlo come conseguenza del proprio continuativo agire sulla psiche della propria vittima» [52]. La Corte è piuttosto ambigua, perché se si interpreta la fattispecie come reato di evento, anche se il danno non deve essere il fine perseguito in quanto la norma non richiede il dolo intenzionale, deve essere non solo prevedibile ma anche voluto; non sarebbe ammissibile questa sorta di imputazione a titolo di colpa di cui parla la sentenza affermando che è “sufficiente la possibilità di fondatamente prevederlo”. Emerge la difficoltà della sentenza che da una parte afferma la sussistenza certa del dolo rispetto alla condotta [continua ..]
Il d.l. n. 93/2013 ha ampliato l’ambito di applicazione della precedente aggravante prevedendo che la pena, nel minimo di sei mesi e nel massimo di cinque anni, è aumentata «se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa». Prima di tale riforma l’aggravante si applicava solo se il fatto era commesso dal coniuge legalmente separato o divorziato o da persona che fosse stata legata da relazione affettiva alla persona offesa. Tale modifica ha voluto superare le critiche avanzate contro tale aggravante, che contrastava con il principio di uguaglianza-ragionevolezza laddove se ne limitava l’applicazione al fatto commesso dal coniuge legalmente separato, con esclusione dunque del fatto commesso dal coniuge separato solo di fatto [55]. Si ritiene che tale aggravante si possa giustificare in termini di meritevolezza del più grave trattamento sanzionatorio solo se si ritiene che la condizione di ex coniuge o di persona legata da relazione affettiva fornisca all’autore delle maggiori conoscenze della vittima, delle sue debolezze e delle sue abitudini, che potrebbero rendere le condotte moleste più mirate e insidiose, determinando un maggiore disvalore della condotta di stalking. Alcuni studi criminologici rilevano che gli ex partners sono autori di forme di stalking a più grave rischio di violenza sia fisica sia psicologica. Un tale fondamento non giustificava, però, la mancata estensione della misura al separato di fatto; anche la possibilità di applicare al separato di fatto la fattispecie di maltrattamenti, del resto, non consentiva di giustificare tale mancata estensione. La fattispecie di maltrattamenti presuppone la convivenza o, al limite, potrebbe assorbire anche condotte immediatamente successive alla separazione, se precedute dai maltrattamenti; non si capiva perché non applicare l’aggravante nell’ipotesi di soggetti che, ormai separati anche se solo di fatto, avessero realizzato condotte persecutorie sfruttando le maggiori conoscenze acquisite durante la convivenza. L’assurdità della disciplina in esame emergeva in maniera ancora più irrimediabile, inoltre, laddove si fosse considerato che in ogni caso il separato di fatto sarebbe potuto rientrare [continua ..]
Il delitto in esame è correttamente procedibile a querela (in considerazione della particolare natura del reato, il termine di presentazione della querela è stato portato a sei mesi), in quanto, trattandosi di beni personalissimi, come la libertà, la tranquillità e la salute, spetta, innanzitutto, alla vittima decidere quando il comportamento sia non socialmente tollerabile al punto da affrontare un processo. Si auspicava che la querela fosse irrevocabile in modo da evitare possibili mercimoni e ricatti e in tale direzione si era pronunciato il CSM. Tale profilo è stato riformato con il decreto n. 93/2013 nella versione convertita in legge, prevedendo l’irrevocabilità ma solo «se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui all’articolo 612, secondo comma»; in realtà le minacce reiterate dovrebbero rappresentare una normale modalità di realizzazione degli atti persecutori, anche se probabilmente nell’intento del legislatore si fa riferimento ad ipotesi particolarmente gravi in cui la condotta non si realizza con le molestie ma con minacce che già singolarmente considerate sono in grado di cagionare timore nella vittima. Nella sua versione originaria il decreto n. 93 prevedeva la clausola di irrevocabilità in qualunque ipotesi, dando la prevalenza in maniera più decisa alle esigenze di prevenzione generale e di tutela della vittima contro possibili ricatti. La remissione della querela può essere, però, in seguito alla riforma soltanto processuale, cercando così di garantire, attraverso la giurisdizionalizzazione della remissione da presentare dinanzi all’autorità giudiziaria, «la libera determinazione e consapevolezza della vittima». La procedibilità d’ufficio è limitata all’ipotesi in cui il fatto sia commesso nei confronti di un minore «o di una persona con disabilità di cui all’art. 3 della l. 5 febbraio 1992, n. 104», oppure in caso di connessione con reato procedibile d’ufficio [60]. Nell’ambito di un sistema multidisciplinare ispirato all’esigenza di garantire la prevenzione [61] si potrebbe teoricamente valutare positivamente l’inserimento di una nuova misura cautelare, prevista dal novello art. 282 ter c.p.p. che prevede il divieto di avvicinamento ai [continua ..]
Dall’esame comparatistico, compiuto in altra sede, emerge la consapevolezza anche dei legislatori stranieri della difficoltà dell’accertamento dell’evento psicologico, consapevolezza che ha indotto alcuni ordinamenti ad adottare parametri oggettivi o, addirittura, problematiche presunzioni [76]. E, allora, anche se questa scelta è stata condivisa da altri ordinamenti (talora puntando sull’evento psicologico, come la paura, altre volte su elementi più oggettivi, ma non meno problematici in termini di tassatività, come il cambiamento dell’organizzazione della vita), si ritiene che in termini di idoneità e necessità del mezzo rispetto allo scopo, l’interpretazione della fattispecie come reato di evento, che dovrebbe maggiormente garantire il rispetto del principio di offensività, potrebbe paradossalmente provocare la violazione di tale principio laddove l’accertamento di eventi incerti e poco tassativi, difficili da verificare sotto un profilo empirico criminologico, potrebbe consentire l’applicazione della fattispecie nei confronti di condotte oggettivamente inidonee, ma che avrebbero provocato gli eventi psicologici in questione in base all’interpretazione soggettiva della vittima, se non, addirittura, in base a vere e proprie strumentalizzazioni da parte delle vittime. Solo un’interpretazione rigorosa che finisca per valorizzare una valutazione oggettiva del disvalore della condotta potrebbe consentire di evitare interpretazioni soggettivizzanti della fattispecie. L’interpretazione come reato di pericolo consentirebbe l’affermarsi di una più oggettiva valutazione del disvalore della condotta nel rispetto del principio di offensività e di tassatività, in quanto consentirà di punire solo quella reiterazione delle minacce o delle condotte moleste tale che risulti idonea a cagionare gli eventi in questione in base a «criteri che allo stato delle attuali conoscenze appaiano verificabili» (Corte cost., sent. n. 96/1981), una regola di esperienza o una legge scientifica. In termini di politica criminale si garantirebbe una maggiore tutela alle vittime anche in considerazione della difficoltà che potrebbe incontrare l’accusa in dibattimento nel provare la verificazione dell’evento, pur in presenza di condotte idonee. In ogni caso in conformità [continua ..]