La presente Rivista ha lo scopo di approfondire il tema delle adozioni attraverso il prezioso contributo di diverse professionalità al fine di fornire un completo quadro di questa attuale e complessa materia nella quale confluiscono e interagiscono molteplici aspetti e problematiche giuridiche, umane e psicologiche.
Come noto, il quadro normativo di riferimento è la l. 4 maggio 1983, n. 184, intitolata “Diritto del minore ad una famiglia”.
L’epigrafe è stata così sostituita dall’art. 1 della l. 26 marzo 2001, n. 149, che è intervenuta a modificare la dicitura precedente che recitava “disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori”.
Dal cambiamento dell’intestazione si evince il chiaro intento del legislatore di privilegiare e mettere al centro l’elemento relazionale del minore, dei suoi bisogni e delle sue esigenze. Ogni qualvolta, dunque, risulti a rischio la disgregazione del nucleo originario, il legislatore e tutti gli operatori coinvolti hanno il compito di assecondare i diritti del minore al fine di evitare che il suo allontanamento non pregiudichi il suo interesse ad avere legami relazionali affettivi solidi, stabili e positivi.
Tale approccio raccoglie i principi delle Convenzioni Internazionali sui diritti dell’infanzia (Convenzione di New York del 20 novembre 1989 sui diritti del fanciullo ratificata in Italia con l. n. 176/1991) e sulla Protezione e Cooperazione in materia di adozione internazionale (Convenzione per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale dell’Aja in data 29 maggio 1993, ratificata in Italia con l. n. 476/1998), nonché gli orientamenti e le pronunce della CEDU degli ultimi anni.
Il principio cardine che ne è scaturito, sia dal punto di vista giuridico che da quello squisitamente culturale, è che l’istituto dell’adozione debba considerarsi l’extrema ratio cui ricorrere solo allorché il minore risulti privo di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi e di conseguenza esposto a gravi pericoli per la sua salute fisica e psichica.
Il concetto si basa sul diritto del minore a crescere nella sua famiglia d’origine e, conseguentemente, sul dovere – da parte dei giudici e delle Istituzioni chiamati ad effettuare le valutazioni socio-psicologiche – di operare in modo da preferire il più possibile il mantenimento del rapporto del bambino con i suoi legami biologici originari, mettendo dunque in campo tutte quelle risorse rinvenibili e possibili per concretizzare tale scopo.
È quanto affermato unanimemente dalla Giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione da anni a questa parte, a partire dalla nota pronuncia n. 10656/1996, che ha sancito di non potersi dichiarare la situazione di abbandono (anche) quando sia dimostrata la seria [continua..]