La presunzione di gratuità del lavoro tra coniugi e conviventi more uxorio trasferisce sul lavoratore, nella maggior parte dei casi sulla lavoratrice, l’onere di provare la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, contrariamente a quanto previsto dall’art. 2094 c.c. in materia lavoristica. L’autrice esamina i principali elementi e circostanze di prova nelle applicazioni giurisprudenziali e in materia previdenziale, concludendo che sarebbe auspicabile un intervento normativo per impedire forme di sottaciuta violenza economica sulle donne lavoratrici.
Presumption of unpaid work between spouses and more uxorio cohabitants transfers to the worker, usually the woman, the burden of proving the existence of a proper employment relationship, contrary to ordinary dispositions of art. 2094 of the Civil Code. The author investigates main evidence in case law and social security matters, concluding a legislative initiative would be desirable to prevent concealed cases of economical violence against worker women.
1. La presunzione di gratuità - 2. La presunzione di gratuità in ambito previdenziale - 3. Conclusioni - NOTE
Quando si parla di prestazioni di lavoro rese in favore del coniuge e/o del convivente, non è facile fornire un inquadramento giuridico preciso. Molte di queste sono infatti riconducibili all’impresa familiare regolata dall’art. 230 bis c.c., altre si configurano invece come vere e proprie prestazioni di lavoro subordinato, altre ancora, la maggior parte per la verità, rientrano nel vincolo solidaristico che lega fra loro i rapporti familiari. Traendo fondamento dall’art. 2094 c.c. che testualmente recita “È prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”, qualsiasi attività di lavoro oggettivamente configurabile come prestazione di lavoro subordinato si presume, salva prova contraria, resa a titolo oneroso, cosicché l’assunto della sua riconducibilità ad un diverso rapporto, non di lavoro subordinato, con la relativa gratuità della stessa attività, esige una prova rigorosa da parte del datore di lavoro. Ciononostante, nell’ambito familiare, vige la presunzione contraria. Difatti, in assenza di uno specifico richiamo normativo, per consolidato e tradizionale orientamento giurisprudenziale, le prestazioni lavorative svolte tra familiari (coniugi, parenti e affini conviventi) si presumono gratuite e non ricollegabili ad alcun rapporto di lavoro, trovando esse causa nei vincoli di affetto e solidarietà che caratterizzano il contesto familiare. In tale ambito vengono ricondotte altresì le convivenze more uxorio, le quali, al pari del vincolo coniugale, valgono ad identificare la causa nei vincoli di solidarietà ed affettivi esistenti, alternativi rispetto ai vincoli tipici di un rapporto a prestazioni corrispettive, salvo che non sia fornita la prova della diversa sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato [1]. Nel caso di prestazioni lavorative rese tra persone conviventi legate da vincolo di coniugio, parentela o di affinità, le prestazioni stesse si presumono quindi gratuite e non ricollegabili al rapporto di lavoro. Si tratta di una presunzione assai “forte” dato che può essere vinta solo con la dimostrazione, precisa e rigorosa, incombente alla parte che sostiene l’esistenza di un rapporto di lavoro, [continua ..]
La presunzione di gratuità vige peraltro anche in ambito previdenziale, secondo l’Inps la stessa opera prevalentemente: – in caso di attività lavorativa prestata in favore del coniuge professionista; – in caso di attività lavorativa prestata nell’ambito di un’impresa individuale, qualora questa sia gestita ed organizzata, strutturalmente ed economicamente, con criteri prevalentemente familiari; – in caso di attività lavorativa prestata in favore di un socio di una società di persone che abbia il controllo della società (socio di maggioranza o amministratore unico). Le discriminanti secondo l’Istituto Previdenziale da individuare per valutare se si è in presenza o meno di un rapporto di lavoro familiare per il quale vige la presunzione di gratuità delle prestazioni sono per lo più la convivenza, l’uguaglianza di trattamento economico rispetto agli altri dipendenti, l’irrogazione di sanzioni disciplinari, l’eventuale regime di separazione dei coniugi e la presenza di un conto corrente separato tra gli stessi. A ciò si aggiunga l’orientamento espresso dal Ministero del Lavoro con la nota n. 10478 del 21 aprile 2013, secondo cui ai fini della iscrizione presso le apposite Gestioni previdenziali Inps del familiare occorre guardare alla quantità delle prestazioni. Difatti secondo il Ministero del Lavoro “il lavoro reso da un familiare contribuisce a determinare in molti casi la natura occasionale della prestazione lavorativa, così da escludere l’obbligo di iscrizione in capo al familiare. In alcune specifiche circostanze, inoltre l’occasionalità della prestazione può essere qualificata come regola generale e pertanto si ritiene che in sede di verifica ispettiva se ne debba tener conto”. In questi casi opererebbe la presunzione (relativa) di occasionalità della prestazione quando la stessa resa nell’ambito quantitativo di 90 giorni nell’arco dell’anno solare over 720 ore/anno riguarda: – pensionati, parenti o affini dell’imprenditore, considerate collaborazioni occasionali di tipo gratuito, tali dunque da non richiedere né l’iscrizione nella gestione assicurativa di competenza, né da ricondurre alla fattispecie [continua ..]
La presunzione di gratuità, come detto, non opera solo per quanto riguarda i rapporti tra coniugi, ma si estende anche nei confronti dei soggetti conviventi more uxorio. Le relazioni che intercorrono tra gli stessi, in materia di rapporto di lavoro, sono infatti ricondotte ai vincoli di solidarietà e affettività esistenti (pari a quelli dei coniugi) e dunque alternativi ai vincoli tipici delle prestazioni corrispettive. Anche per le coppie di fatto il lavoro prestato dall’uno nei confronti dell’altro viene pertanto nella maggior parte dei casi, ricompreso nei doveri di assistenza che sorgono all’interno del nucleo familiare non riconoscendo la prestazione quale attività lavorativa da remunerare. È quindi evidente, come nell’ambito dei rapporti coniugali e di convivenza, in assenza di una specifica regolamentazione normativa, l’ex moglie o convivente, allontanata dal posto di lavoro dopo la separazione in quanto non più gradita all’interno dell’azienda, spesse volte non riesca a trovare un adeguato riconoscimento del proprio apporto professionale non avendo la possibilità concreta di superare la presunzione di gratuità, dimostrando, con quel rigore richiesto dalla giurisprudenza, il proprio assoggettamento al potere di eterodirezione del datore di lavoro ex marito o convivente. È quindi lecito chiedersi se l’attuale panorama delle prestazioni lavorative rese nell’ambito familiare richieda un intervento normativo che allontani lo spettro di una sottaciuta forma di “violenza economica” a carico delle donne lavoratrici, il cui impegno professionale nelle aziende del marito nella maggior parte dei casi finisce per non trovare adeguata tutela né in sede di separazione, né tantomeno in sede lavoristica.