L’articolo si sofferma sulla presunzione di gratuità del lavoro femminile in ambito giurisprudenziale, partendo dall’origine di matrice principalmente culturale ed analizzando le pronunce ritenute più significative. L’autrice analizza l’evoluzione del principio e si sofferma sulle applicazioni più recenti, che ne hanno di fatto ridotto la portata applicativa, riflettendo in conclusione sui possibili sviluppi nell’ottica di evitare l’ingiusto arricchimento di un soggetto in danno di un altro, che nella quasi totalità dei casi è una donna.
The article examines presumption of unpaid feminine work in the family context, starting from its cultural origins and analysing relevant case law. The author analyses evolutions of the principle and recent applications, which have indeed reduced its concrete effects, reflecting in conclusion about possible developments in order to avoid unjust enrichment of a subject to the detriment of another one, usually a woman.
1. Premesse - 2. La natura ambigua del lavoro prestato in favore dei familiari. Le prestazioni di lavoro domestico e di cura e le prestazioni di collaborazione nell’attività professionale o di impresa del familiare - 3. L’art. 1, 3° comma, d.p.r. n. 1403/1971 - 4. La presunzione di gratuità ed alcune eccezioni normative - 5. L’impresa familiare ed il lavoro domestico - 6. Onere probatorio - 7. Il rigore dell’orientamento giurisprudenziale - 8. Il recente orientamento giurisprudenziale. Qualcosa sta cambiando - 9. Riepilogo - 10. Alcune riflessioni conclusive - NOTE
Per un esame e un’analisi della giurisprudenza sul lavoro in ambito familiare, che consenta di intenderne contesto e ragioni, sono necessarie alcune premesse [1]. Innanzi tutto il problema della gratuità della prestazione resa a favore di familiari benché venga riferito, in presenza di determinate condizioni, a tutte le prestazioni di cui beneficia un congiunto stretto è un problema che riguarda nella quasi totalità della casistica il lavoro femminile e ha quindi un’indubbia connotazione di genere. In secondo luogo il momento di emersione del problema, quanto alle controversie civili, è quello della crisi del rapporto familiare e così il momento della separazione personale dei coniugi o dei conviventi, l’apertura di una successione, la lite tra fratelli che abbiano cespiti patrimoniali in comune godimento e ipotesi analoghe. Si tratta di controversie che originano da rapporti e condotte protratti nel tempo, molto spesso privi di riferimenti “negoziali” storicamente identificabili come “manifestazioni di volontà”, rispetto ai quali il giudice è chiamato ad operare non una valutazione astratta su ciò che è possibile e verosimile o equo, ma una valutazione su quanto viene ritenuto provato rispetto alla contestazione del fatto costitutivo della pretesa ovvero la prestazione di lavoro. Infine, un altro fattore che influenza notevolmente gli arresti giurisprudenziali, è l’esistenza di un contenzioso previdenziale, quando è l’ente previdenziale che disconosce il rapporto di lavoro subordinato con il familiare perché ritenuto simulato al fine di ottenere prestazioni varie (indennità di disoccupazione, indennità di maternità e così via). È evidente che questa prospettiva è molto diversa ed è anche comprensibile un certo rigore nella valutazione delle circostanze che l’ente previdenziale assume come indizianti di una frode, ma, come si vedrà, nel corso del tempo si è creata una ingiustificata osmosi tra gli arresti giurisprudenziali dei due contenziosi, senza operare le necessarie distinzioni, con penalizzazione della parte prestatrice di lavoro sul piano dell’onere della prova.
Fatte queste premesse, va però subito sottolineato che il riconoscimento del lavoro femminile nella sfera familiare ha un contenuto fortemente culturale e dipende dalla funzione che la società attribuisce alla famiglia e dal ruolo che viene attribuito alla donna nella famiglia. Nonostante il ’900 sia stato il secolo dell’emancipazione femminile e del riconoscimento del ruolo della donna in ogni settore, il lavoro prestato in favore dei familiari mantiene una natura ambigua, non essendo definiti e indagati i confini di ciò che è doveroso per affetto e solidarietà, e quindi gratuito, in relazione a ciò che costituisce un contributo ulteriore rispetto a ciò che è doveroso e che costituisce accrescimento patrimoniale per chi lo riceve. E così il problema della gratuità viene affrontato dalla giurisprudenza sostanzialmente negli stessi termini in situazione tra loro molto diverse e che dovrebbero invece essere tenute distinte. Una prima netta distinzione dovrebbe essere operata tra le prestazioni di lavoro domestico e di cura e le prestazioni di collaborazione nell’attività professionale o di impresa del familiare quando non siano inquadrate in un rapporto tipico e non siano nemmeno riconducibili all’art. 230 bis c.c. e ora anche all’art. 230 ter. Per quanto riguarda le prime, l’ordinaria ripartizione dei compiti nella quotidianità, che nella moderna società con famiglie mononucleari riflette il tipo di rapporto tra i coniugi/conviventi e tra genitori e figli e la condivisione in questo rapporto della concezione del proprio ruolo, dovrebbe poi essere tenuta nettamente distinta da altre ipotesi. E in particolare dovrebbero essere considerate separatamente e autonomamente la ripartizione di ruoli che è frutto di un accordo specifico di assegnazione del lavoro domestico a uno solo dei due coniugi/conviventi (nella quasi totalità dei casi alla donna) con attribuzione all’altro del compito di svolgere una attività esterna produttiva di reddito e le prestazioni di lavoro domestico e di cura che sono svolte a favore di altri familiari, parenti o affini, conviventi o non conviventi. Mentre, infatti, l’ordinaria ripartizione di compiti quotidiani in un contesto di parità ed equivalenza di ruoli, anche sotto il profilo del valore e della capacità economico [continua ..]
Una disposizione che si occupa espressamente del lavoro in ambito familiare per attività “domestiche” è l’art. 1, 3° comma, d.p.r. n. 1403/1971 che disciplina a fini previdenziali questo tipo di prestazioni a favore dei grandi invalidi e che al di fuori di queste ipotesi pone a carico del familiare che presta lavoro domestico e di cura l’onere di provare l’esistenza di un reale rapporto di lavoro subordinato, anche in assenza di convivenza: «L’esistenza di vincoli di parentela od affinità fra datore di lavoro e lavoratore non esclude l’obbligo assicurativo quando sia provato il rapporto di lavoro. L’onere della prova non è, tuttavia, richiesto, quando si tratti di persone che, pur in presenza di vincoli di coniugio, parentela od affinità, svolgono le seguenti mansioni: …». Si tratta di una previsione che esprime un disfavore per la formalizzazione di rapporti di lavoro subordinato per attività di servizio in ambito familiare (il riferimento è chiaramente al lavoro subordinato). E si tratta di una previsione che esprime anche un contenuto culturale forte, omogeneo alla giurisprudenza che afferma i principi sulla gratuità del lavoro in ambito familiare (e che li estende anche alle prestazioni nell’attività professionale o di impresa, quando non vengono ravvisati i presupposti per l’applicazione dell’art. 230 bis c.c.). La disposizione richiamata, che si occupa del lavoro domestico, nei limiti in cui lo riconosce nei rapporti tra familiari, ne definisce peraltro direttamente e indirettamente il contenuto sul piano assicurativo/previdenziale/retributivo e potrebbe quanto meno essere un riferimento, anche al di fuori del riconoscimento del rapporto di lavoro oneroso, per una determinazione del valore della prestazione. La giurisprudenza che afferma la gratuità della prestazione di lavoro domestico, non affronta invece mai la questione del valore patrimoniale effettivo della prestazione di lavoro in ambito familiare e della proporzione tra valore effettivo, quanto meno sotto forma di risparmio di costi, e il beneficio che indirettamente viene tratto da chi lo presta e che è indicato quale giustificazione della gratuità. Quando questo problema è posto viene tutto sfumato nella giustificazione del perseguimento del benessere del nucleo che si traduce [continua ..]
n realtà sono state presenti da tempo nel nostro ordinamento anche norme di segno diverso, di riconoscimento del lavoro femminile nell’attività familiare: l’art. 2140 c.c. sulla comunione tacita familiare in agricoltura, l’art. 48 della l. n. 203/1982, la l. n. 1047/1957, la l. n. 9/1963 e l’art. 205 T.U. n. 1124/1965 sulla copertura previdenziale e assicurativa della famiglia coltivatrice. Queste disposizioni tutelavano il lavoro prestato nella comunità familiare agricola, secondo le più diverse mansioni e quindi anche il lavoro femminile domestico e di “corte”; davano e danno un riconoscimento all’onerosità della prestazione di lavoro anche della donna nell’esercizio di una attività svolta nell’interesse della famiglia e costituivano e costituiscono la negazione della presunzione di gratuità a cui la giurisprudenza faceva e fa tuttora ricorso quando si tratta di prestazioni di lavoro svolte a favore di un familiare. Non sono però mai state lo spunto per una riflessione giurisprudenziale di sistema così come non lo è stato successivamente l’art. 230 bis c.c., nonostante alcune affermazioni di principio in senso contrario [2]. Vi è sempre stata invece un’interpretazione restrittiva, come già osservato, ogni qual volta l’ente previdenziale abbia mosso contestazioni alla effettività del rapporto di lavoro agricolo [3], interpretazione che, come pure già osservato, ha prodotto arresti giurisprudenziali che per osmosi si sono trasmessi, almeno per lungo tempo, all’intero contenzioso sul lavoro in ambito familiare, compreso quello di natura non previdenziale. Ma qual è il significato della presunzione di gratuità? Assenza di diritto alla retribuzione o assenza del diritto ad attribuzioni patrimoniali “compensative”? E qual è il fondamento normativo della presunzione di gratuità? L’art. 2094 c.c., che definisce il rapporto di lavoro subordinato, è sempre stato costantemente interpretato nel senso che la prestazione di lavoro si presume onerosa ed è chi la riceve che deve provare la gratuità se la allega: prova oltremodo ardua se non vi è un interesse preciso alla prestazione solo in capo a chi la esegue e non anche in capo a chi ne beneficia. Benché elaborata in relazione alla [continua ..]
La prima impressione è che vengano riproposte, sempre senza base normativa, le stesse affermazioni di principio. Una delle sentenza più interessanti è la n. 89/1995 delle Sezioni Unite che affronta la questione della costituzione dell’impresa familiare anche con il coniuge che presta solo lavoro domestico, dove il caso era stato dato da una pronuncia del Tribunale di Udine che aveva escluso la costituzione dell’impresa familiare con questi argomenti: a) non può esservi una disparità di trattamento tra imprenditori e non imprenditori quanto alla partecipazione delle mogli ai proventi della loro attività; b) una diversa interpretazione comporterebbe la costituzione dell’impresa familiare anche con parenti e affini che si occupino solo dei lavori di casa; c) la prestazione di lavoro domestico comporterebbe la costituzione dell’impresa familiare anche contro la volontà dell’imprenditore, per il semplice adempimento da parte della moglie degli obblighi di concorso nel soddisfacimento dei bisogni della famiglia secondo la sua capacità di lavoro domestico. La Cassazione conferma con questi passaggi: è vero che l’art. 29 Cost. sancisce l’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi e che l’art. 143 c.c. equipara la capacità di lavoro professionale e di lavoro casalingo «tuttavia, dovendosi tale attività tradursi (in proporzione alla quantità e qualità di lavoro prestato) in una quota di partecipazione … tale quota non può che essere determinata in relazione all’accrescimento della produttività dell’impresa, procurato dall’apporto dell’attività del partecipante»; «sarebbe estremamente arduo e darebbe adito a soluzioni arbitrarie quantificare in termini economici di partecipazione all’impresa, un’attività, la cui misura e intensità non è in relazione all’apporto produttivo … ma è determinata esclusivamente dalla composizione della famiglia … e dalla misura delle prestazioni necessarie all’andamento della casa»; la costituzione dell’impresa, ancorché per fatti concludenti, è volontaria e presuppone che l’imprenditore possa rifiutare la partecipazione mentre ciò non sarebbe possibile per il lavoro domestico perché dovrebbero essere inibite [continua ..]
Un’altra pronuncia di estremo interesse, perché mette in evidenza, di nuovo, il contenuto culturale delle opzioni giurisprudenziali, è la sentenza n. 3975/2001 della Suprema Corte che affronta in modo approfondito una fattispecie in materia di iscrizione nell’elenco dei lavoratori agricoli e prestazione di lavoro a favore del padre, affermando che il discrimine tra presunzione di onerosità e presunzione di gratuità della prestazione di lavoro trova fondamento in massime di esperienza di “normalità e affidamento” e partendo da questa premessa ribadisce che nei rapporti di lavoro con i familiari prevale la presunzione di gratuità (a maggior ragione se la contestazione proviene dall’ente previdenziale) con onere per chi deduce la natura di prestazione di lavoro di dimostrare la subordinazione. Appare del tutto evidente la rinuncia a cercare un fondamento giuridico solido per una discriminazione così netta rispetto all’art. 2094 c.c., considerato che il semplice e nudo rinvio a massime di esperienza di “normalità e affidamento” realizza un mero recepimento di un assetto di valori culturalmente determinati, a contenuto discriminatorio quanto al lavoro femminile. Non è un semplice caso infatti che non si rinvengano pronunce così severe e rigide rispetto al lavoro prestato da figli maschi nelle imprese agricole familiari, per i quali viene data per scontata una partecipazione effettiva e onerosa già nella fase antecedente dell’accertamento dell’ente previdenziale in base alle stesse “massime di esperienza di normalità e affidamento”, ragione questa per la quale non vi è un contenzioso significativo per queste prestazioni [11]. E se pure è vero che in astratto viene affermata la possibilità di dare una prova contraria, non si può che evidenziare che si tratta di una prova veramente ardua (orario, direttive e così via) proprio per il tipo di relazione personale che lega datore e prestatore, con il risultato paradossale di valorizzare grandemente l’assenza di prova della pattuizione di una retribuzione, che è esattamente l’elemento di discriminazione del lavoro femminile. Non solo, ma nel contenzioso previdenziale viene svalorizzato anche l’unico elemento oggettivo esterno riscontrabile di una volontà negoziale di dare [continua ..]
L’affermazione in astratto della possibilità di un rapporto di lavoro a titolo oneroso, in presenza di una presunzione di gratuità, con traslazione del problema sul piano della valutazione della prova, implica poi, nella difficoltà di offrire elementi di immediato e univoco accertamento, l’assoluta aleatorietà del risultato del processo incidendo, come è del tutto normale, nella ponderazione degli indizi l’orientamento culturale e valoriale del giudicante. Molto interessante sotto questo profilo è la sentenza 12 luglio 2006 del Tribunale di Salerno nella quale, dopo aver affermato che, pur non operando in difetto del requisito della convivenza la presunzione di gratuità delle prestazioni rese in favore di parenti o affini, e dopo aver affermato che ciò nonostante vi è comunque l’obbligo di dimostrare gli elementi costituitivi del rapporto di lavoro, tutte le circostanze offerte in valutazione vengono svuotate di significato dando prevalenza al rapporto affettivo/familiare. E così viene rilevato che: il rapporto si era svolto in un regime di sostanziale convivenza; la lavoratrice trascorreva l’intera giornata presso l’abitazione della suocera; nella piccola impresa operava anche il coniuge, che traeva vantaggi economici da tale attività; la lavoratrice con il proprio nucleo familiare, consumava i pasti presso la suocera e riceveva aiuti per sé e per il proprio bambino; l’assenza, per lungo tempo, di una retribuzione era indizio di gratuità; non era risultato l’obbligo di un orario di lavoro e di rispettare specifiche direttive da parte della suocera, salvo un generico richiamo operato da due dei testi escussi; gli oltre quattro anni trascorsi tra la cessazione delle prestazioni e la prima documentata richiesta di trattamento economico costituiva elemento non favorevole alla onerosità. È evidente che se si elidessero le considerazioni fondate sul rapporto di affinità nessuna delle circostanze indicate se riferite a un estraneo alla cerchia familiare (comprese quelle della consumazione dei pasti e dei regali al bambino) sarebbe utile per negare l’onerosità di una prestazione di lavoro sicuramente eseguita in via continuativa in una azienda, per quanto piccola. Benché negata in astratto, la presunzione di gratuità opera in realtà nuovamente nella [continua ..]
Una lettura approfondita della giurisprudenza più recente consente però di affermare che qualcosa sta cambiando, quanto meno per le prestazioni diverse da quelle di lavoro domestico o di cura [14]. La maggior parte della giurisprudenza di merito ad esempio ha riconosciuto con più facilità la partecipazione all’impresa familiare anche per attività non quotidiane, ma semplicemente sistematiche e ha esteso la relativa disciplina anche ai conviventi nonostante i contrasti nella giurisprudenza di legittimità (oggi vi è l’art. 230 ter c.c.). Nello stesso tempo quest’ultima ha adottato un criterio molto più elastico nella valutazione della causa della prestazione che ha ridimensionato la presunzione di gratuità. Con la sentenza n. 18284/2003 la Corte di Cassazione, in un’ipotesi di contestazione da parte dell’Inps del rapporto di lavoro tra una infermiera e il marito medico, ha annullato con rinvio Tribunale Campobasso negando, quanto alla gratuità, che «tale presunzione debba considerarsi assoluta o così rigorosa, come nel caso del rapporto di lavoro tra coniugi, da escludere in modo assoluto la prova contraria». Leggendo per esteso la pronuncia, è agevole rilevare che per esclusione della prova contraria si intende una valutazione della prova che riconduca (come sopra) a una lettura dell’attività solo in termini di giustificazione in ragione della convivenza e dei doveri che derivano dal matrimonio. Decisamente significativa è la sentenza n. 19304/2014 [15]. In un’ipotesi di prestazione del convivente (sei anni di attività di collaborazione nella amministrazione di un ingente patrimonio) dove viene affermata per la prima volta, seppure senza enfasi, l’inversione degli argomenti di presunzione: «Premesso che ogni attività oggettivamente configurabile come prestazione di lavoro subordinato si presume effettuata a titolo oneroso, essa può tuttavia essere ricondotta ad un rapporto diverso, istituito affectionis vel benevolentiae causa, caratterizzato dalla gratuità della prestazione, ove risulti dimostrata la sussistenza della finalità di solidarietà in luogo di quella lucrativa (Cass. 3 luglio 2012, n. 11089; Cass. 26 gennaio 2009, n. 1833)». E nello stesso solco è la sentenza n. 19925/2014 [16]: [continua ..]
Ricapitolando: con riferimento alle distinzioni iniziali sulle prestazioni di lavoro gratuito in ambito familiare si può osservare: a) gli accordi di suddivisione dei compiti con assegnazione a uno dei conviventi di quelli domestici e di cura, accordi che sono suscettibili di penalizzare il convivente “casalingo” nel momento della rottura dell’unione, vengono ricondotti alla disciplina del regolamento dei rapporti patrimoniali della separazione personale, del divorzio o della cessazione dell’unione civile. La recente sentenza n. 11504/2017 della Corte di Cassazione riduce la tutela quanto meno nelle ipotesi in cui il coniuge che ha assunto i compiti domestici e di cura abbia una capacità di lavoro attuale e possa provvedere al proprio mantenimento al momento del divorzio, benché abbia rinunciato in tutto o parzialmente in precedenza a un’attività di lavoro esterno remunerata e a possibilità di progressioni di carriera (e di retribuzione). Rimangono esterne a queste disciplina le convivenze di fatto non formalizzate; b) continuano a essere collocate in una zona d’ombra le prestazioni di lavoro domestico e di cura a favore del familiare, diverso dal coniuge compagno o figlio, convivente o non convivente, che, in assenza di un accordo esplicito, per i parenti e gli affini più stretti (genitori e suoceri) vengono tuttora ricondotte alla solidarietà familiare e all’obbligazione naturale; c) le prestazioni di lavoro a favore del familiare imprenditore o professionista, rispetto alle quali la giurisprudenza di merito è più tutelante, hanno diversa considerazione anche da parte del giudice di legittimità: la presunzione è attenuata, viene valorizzato l’inserimento della prestazione nella organizzazione dell’attività di impresa o professionale e si “leggono” gli altri cd indizi di subordinazione o comunque di onerosità in questa prospettiva [17].
La presunzione di gratuità, come visto, non ha una base giuridica definita e ha un forte contenuto culturale. La giurisprudenza recepisce questo dato senza alcuna riflessione critica, come dato immanente alla organizzazione sociale, e per dare spazio alla prova contraria procede per categorie e concetti che attengono alla prova del rapporto di lavoro subordinato o di collaborazione coordinata. Tutti e tre questi passaggi hanno aspetti irrisolti che conducono alla fine a risultati non soddisfacenti di consolidamento di una posizione di subalternità della donna in ambito familiare e sociale. La presunzione è riferita in astratto alla prestazione a favore del familiare senza dedicare attenzione alla circostanza che nella quasi totalità dei casi si trattava e tuttora si tratta di lavoro femminile. Il non considerare questo aspetto impedisce di prendere in considerazione le peculiarità relazionali del contesto in cui vi è svolgimento di prestazioni senza l’attualità di una retribuzione e questo al fine di operare le dovute distinzioni. La non emersione delle peculiarità di queste prestazioni e dei concreti contesti familiari in cui vengono svolte impedisce a monte ogni verifica e revisione di affermazioni astratte che vengono reiterate senza tenere conto del mutato contesto sociale. L’assenza di una elaborazione giurisprudenziale diretta a dare spazio alle peculiarità e caratteristiche specifiche concrete di queste prestazioni di lavoro è accompagnata dalla sistematica riconduzione delle stesse in modo acritico da un lato a un interesse proprio (tale essendo il benessere del nucleo familiare nel suo complesso) e dall’altro a obblighi di collaborazione nell’interesse della famiglia e di solidarietà. E si tratta di argomenti fragili se valutati in relazione all’effettività dei vantaggi che ne dovrebbero derivare: la prestazione crea ricchezza già nell’attualità per chi la riceve mentre il vantaggio indiretto per chi la presta può non esserci affatto (non è posta nessuna relazione in termini di proporzione e sinallagma) o dipende dalla durata del matrimonio o della relazione sentimentale. L’obbligazione naturale, a cui viene fatto riferimento, normalmente presuppone un pregresso che costituisce in obbligo, anche se morale e non giuridico, il soggetto: la prestazione in ambito familiare è [continua ..]