L’autore esamina l’istituto della Impresa familiare di cui all’art. 230 bis c.c., e dedica attenzione alle novità introdotte dalla l. n. 76/2016 che ha esteso anche alle unioni civili fra persone dello stesso sesso l’applicabilità di detta disciplina, tuttavia poiché l’unione civile non dà luogo a vincoli di affinità e di parentela, l’art. 230 bis c.c. in maniera discriminate non è applicabile ove all’impresa del civilmente unito collaborino i parenti dell’altro. La l. n. 76/2016, ha anche introdotto nel codice civile il nuovo art. 230 ter, delineando una specifica forma di compartecipazione in un’attività d’impresa tra il titolare e il suo convivente. L’autore esamina le tante criticità di detto nuovo istituto che auspica la giurisprudenza potrà emendare, ma che richiederebbero un nuovo intervento del legislatore (piuttosto che della Corte costituzionale) affinché siano adeguatamente tutelati, anche nella famiglia di fatto, i legittimi diritti delle parti.
The author examines the institution of the family business pursuant to art. 230 bis of the Italian civil code, and devotes attention to the innovations introduced by Law n. 76/2016, which extended the applicability of said discipline to same-sex civil partnerships; however, since civil partnership does not give rise to bonds of relationship or kinship, art. 230 bis of the Italian civil code is discriminatorily not applicable where the relatives of one party in the civil partnership business lend their collaboration to the other party’s business. Law n. 76/2016, also introduced into the Italian civil code the new art. 230 ter, outlining a specific form of co-partnership in business activities between the owner and his/her cohabitant. The author examines many critical areas of this new institution, which he hopes case law may amend, but would require new intervention by lawmakers (rather than the Constitutional Court) so that the parties’legitimate rights might be safeguarded in domestic partnerships as well.
1. Una premessa - 2. Lavoro domestico e lavoro nell’impresa - 3. I familiari - 4. Impresa familiare e azienda coniugale - 5. La continuità del lavoro - 6. I diritti derivanti dalla partecipazione all’impresa - 6.1. Il diritto al mantenimento - 6.2. Il diritto agli utili e agli incrementi - 7. La gestione dell'impresa - 8. Impresa familiare e unioni civili - 9. L’art. 230 ter c.c. - NOTE
Come è noto, la riforma del diritto di famiglia del 1975 ha introdotto nel codice civile l’art. 230 bis c.c., con il nuovo istituto dell’impresa familiare. Il legislatore ha inteso così riconoscere dignità e tutela giuridica a quelle forme di lavoro prestato in modo stabile dai familiari nella struttura imprenditoriale (commerciale o agricola) di colui che, prima della riforma, era qualificato come “capofamiglia”. Detto lavoro, di regola non pagato, o comunque sovente oggetto di un vero e proprio sfruttamento, si riteneva giustificato dalla solidarietà richiesta ai componenti del gruppo familiare (causa affectionis vel benvolentiae). L’impresa familiare è venuta ad attribuire un minimo garantito di diritti a chi presta attività lavorativa, in un contesto familiare, quando non sia configurabile altro e diverso rapporto, giuridicamente strutturato (lavoro dipendente o autonomo, nelle varie forme in cui può realizzarsi, associazione in partecipazione, società), ma pure di fatto (società di fatto).
L’impresa familiare rappresenta un tipico esempio di una situazione fattuale da cui derivano diritti per chi ne è per legge titolare, in presenza dei presupposti normativamente previsti. Per dare vita ad un’impresa familiare non sono necessarie formalità: la costituzione per atto notarile è imposta solo ed esclusivamente a fini fiscali, sì da poter imputare una quota dei redditi ai partecipanti, con conseguente detrazione per l’imprenditore. È indubbio che la riforma del 1975 abbia inteso tutelare soprattutto il lavoro della donna (intesa come moglie dell’imprenditore, o altra persona a lui legata da vincoli di parentela o affinità). L’art. 230 bis c.c. invero fa riferimento all’attività di lavoro svolta «nella famiglia o nell’impresa familiare». Si riconosce così la valenza del lavoro domestico (in allora appannaggio esclusivo della donna), rappresentativo di per sé di un modo di contribuire ai bisogni della famiglia, anche in assenza di attività d’impresa (art. 143, 2° comma, c.c.). Onde evitare equivoci, pare utile evidenziare come il lavoro nella famiglia di cui all’art. 230 bis c.c. non si identifichi tout court con quello domestico in senso stretto, dovendosi invece far riferimento ad un tipo di lavoro che si rifletta sull’andamento dell’impresa [1]. Si tratta, in altri termini di un lavoro strumentale non alla generica utilità della famiglia, bensì alle esigenze dell’attività aziendale, su cui deve avere concreti riflessi, in termini, ad esempio, di risparmio di spesa. Del resto, il legislatore del 1975 aveva avuto prevalente riguardo alla situazione dell’impresa agricola, in cui è più frequente la commistione fra lavoro domestico e lavoro propriamente d’impresa. Nel contempo, si discute se sia configurabile un’impresa familiare, in presenza di prestazioni svolte in favore del coniuge, parente o affine, che già eserciti un’attività commerciale in società con terzi. La soluzione non può che essere negativa, ove si tratti di società di capitali (posto che sussiste un centro di imputazione dell’attività d’impresa, certamente diverso dalla persona del socio). Se invece l’impresa sia svolta da una società di persone, [continua ..]
L’art. 230 bis c.c. individua con precisione i familiari, che collaborando stabilmente con l’imprenditore, beneficiano della relativa disciplina: si tratta del coniuge, dei parenti entro il terzo grado e degli affini entro il secondo. L’elenco è tassativo. Esso peraltro deve essere integrato con quanto in oggi disposto dalla l. 20 maggio 2016, n. 76 sulle unioni civili e le convivenze di fatto. L’art. 1, 13° comma, della legge in esame (su cui si tornerà infra) estende, tra l’altro, alle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, la disciplina di cui all’art. 230 bis. Dell’impresa familiare potranno dunque far parte persone legate al titolare non solo dal vincolo coniugale, ma pure da un’unione civile. Non è richiesta la convivenza con l’imprenditore; proprio per questo motivo si è discusso se anche il coniuge separato possa far parte dell’impresa familiare, ovvero continuare a farne parte, se già rendeva la sua prestazione prima della separazione. La giurisprudenza ha assunto una posizione piuttosto cauta, imponendo una valutazione caso per caso, valutandosi anche il titolo della separazione, in funzione della permanenza o meno di una verosimile coesione fra i coniugi [4] (. La convivenza è invece indispensabile nella peculiare forma di impresa, di cui all’art. 230 ter c.c., su cui si tornerà in prosieguo. Con il divorzio viene meno il matrimonio e, dunque, il coniuge divorziato non potrà far parte dell’impresa familiare.
Diversa dall’impresa familiare è l’azienda coniugale, di cui l’art. 177 c.c. tratta, quanto al regime patrimoniale di comunione legale, sia al 1° comma, lett. d) (ove è previsto che cadano in comunione le aziende cogestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio), sia al 2° comma (che riconduce alla comunione gli utili e gli incrementi delle aziende cogestite, ma appartenenti ad uno dei coniugi già prima delle nozze). Come è noto, l’azienda rappresenta un complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio d’impresa (art. 2555 c.c.); ne consegue che il termine “azienda” risulta utilizzato in modo impreciso; la cogestione infatti riguarda l’impresa e non l’azienda. Sta di fatto che il legislatore ha inteso far riferimento all’aspetto statico dell’oggetto della comunione. Il regime di comunione legale rappresenta il regime patrimoniale legale anche della coppia civilmente unita; per parte loro, in forza del 53° comma dell’art. 1 della l. n. 76/2016, i conviventi di fatto possono, tramite specifico contratto, aderire anch’essi a tale regime. L’elemento unificante delle due fattispecie di aziende è costituito dalla gestione comune; essa si rinviene quando i coniugi (o soggetti ad essi equiparati) partecipano ai poteri decisionali, con assunzione di responsabilità, il che non si verifica se uno dei coniugi si limiti ad una prestazione di lavoro o ad una collaborazione. In questo caso potrà se mai configurarsi un’impresa familiare, quando l’apporto del coniuge abbia carattere continuativo; se invece uno dei due limitasse il contributo al versamento di capitali o alla prestazione di garanzie, potrebbe configurarsi una società di fatto, nei termini esaminati. Dunque, nell’impresa familiare, la gestione è sempre dell’imprenditore; nell’impresa coniugale si richiede la cogestione, quale presupposto per la caduta in comunione dell’azienda, piuttosto che dei suoi utili ed incrementi. Quel che differenzia l’azienda coniugale rispetto all’impresa familiare è il fatto che, relativamente alla prima, l’attività d’impresa deve essere esercitata esclusivamente dai coniugi, pena in difetto la costituzione di un rapporto societario. Può pensarsi pure al diverso [continua ..]
L’art. 230 bis c.c. richiede che la collaborazione del familiare sia svolta in modo continuativo. Si vuol far riferimento alla regolarità nell’esecuzione della prestazione, il che non si verifica in presenza di prestazioni saltuarie o occasionali. La continuità non richiede peraltro anche l’esclusività della prestazione di lavoro, né la prevalenza rispetto ad altre attività (necessaria invece sotto l’aspetto fiscale): la collaborazione del familiare potrà pertanto essere part-time, per svolgere quegli altre attività. È da escludere che norme di leggi speciali, che prevedono incompatibilità nello svolgimento di altra attività lavorativa (es. per gli impiegati pubblici o per certi professionisti intellettuali) possano trovare applicazione all’impresa familiare, stante l’intuitus familiae ad essa sotteso. A sua volta, invece, l’art. 230 ter c.c. richiede la stabilità della prestazione lavorativa del convivente di fatto. È da ritenere che la differenza di terminologia non sia peraltro più di tanto rilevante.
La partecipazione all’impresa attribuisce ai familiari, contemplati nell’art. 230 bis c.c., specifici diritti e poteri di natura patrimoniale e di intervento nelle scelte gestionali.
Il primo diritto è quello al mantenimento, che spetta a tutti i familiari (ma non necessariamente di identica entità), secondo la condizione patrimoniale della famiglia; in ciò si differenzia dal diritto agli utili e agli incrementi aziendali, di natura variabile perché proporzionato alla qualità e alla quantità del lavoro prestato. I familiari dell’imprenditore che partecipano all’impresa familiare possono essere già titolari del diritto al mantenimento, per altro e diverso titolo: rapporto di coniugio (art. 143 c.c.), assegno di separazione (art. 156 c.c.), vincolo di filiazione (art. 147 c.c.); è allora da escludere che possa cumulare altra forma di mantenimento per il lavoro prestato nell’impresa, posto che altrimenti i medesimi bisogni verrebbero ad essere soddisfatti due volte. La determinazione del mantenimento è demandata alle decisioni della maggioranza dei partecipanti all’impresa, trattandosi pur sempre di una decisione afferente l’impiego di utili.
Al familiare lavoratore spetta, in forza dell’art. 230 bis c.c., il diritto agli utili dell’impresa e ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla qualità e quantità del lavoro prestato. Il diritto compete anche al convivente di fatto, giusta il disposto dell’art. 230 ter c.c. Si tratta di diritti esigibili al momento della cessazione dell’impresa o della partecipazione del singolo lavoratore [5], e condizionati dai risultati raggiunti dall’impresa [6]. In assenza di un patto di distribuzione periodica, gli utili sono destinati al reimpiego in azienda [7]. Non è certo agevole in concreto individuare il criterio di riparto, considerato il fatto che alla formazione degli utili dell’impresa concorrono pure fattori differenti dal lavoro dei familiari e che devono trovare adeguata remunerazione: capitale investito, lavoro prestato direttamente dall’imprenditore o da terzi estranei, ecc. Elementi indiziari possono dedursi dalla normativa fiscale che, come si vedrà, prevede la determinazione preventiva delle quote di partecipazione all’impresa familiare, ai fini dell’imputazione del relativo reddito a ciascun familiare.
La gestione dell’impresa fa capo all’imprenditore. L’art. 230 bis, 1° comma, c.c. riconosce peraltro ai partecipanti all’impresa il diritto di decidere, a maggioranza, in ordine alle scelte gestionali di maggior importanza per la vita dell’impresa stessa, specificamente indicate (impiego degli utili e degli incrementi, atti di gestione straordinaria, indirizzi produttivi e cessazione dell’impresa). Nessun partecipazione all’impresa è invece attribuita al convivente di fatto dall’art. 230 ter c.c. (si tratta di altra disparità di trattamento che discrimina la famiglia di fatto rispetto a quella fondata sul matrimonio, ovvero su un’unione civile). Proprio la previsione dell’art. 230 bis c.c. ha dato luogo a contrasti sulla natura, individuale o collettiva, dell’impresa familiare. Considerato che, come già si è visto, l’orientamento prevalente propende per la natura individuale, consegue che i poteri di amministrazione dei familiari rimangono confinati nella sfera interna dell’impresa e sono irrilevanti per i terzi, che vengono in contatto con l’imprenditore. Gli atti posti in essere da quest’ultimo, in contrasto con quanto deciso dalla maggioranza dei familiari, ovvero senza nemmeno consultarli, rimarranno comunque validi ed efficaci; i familiari ben potranno chiedere peraltro il risarcimento dei danni (di natura contrattuale), che dovessero aver risentito, per quando non sia agevole la relativa quantificazione. Al momento della cessazione del lavoro, il familiare ha diritto alla liquidazione della sua partecipazione, ossia alla sua quota di utili e di incrementi individuata in funzione della quantità e qualità del lavoro prestato. L’art. 230 bis, 4° comma, c.c. prevede che la liquidazione sia fatta in denaro, ma nulla esclude che le parti possano accordarsi diversamente. Il diritto alla liquidazione della partecipazione non è riconosciuto al convivente di fatto dall’art. 230 ter c.c. L’interesse dei familiari al mantenimento della propria posizione nell’impresa è tutelato con la concessione della prelazione legale sull’azienda, in caso di suo trasferimento o di divisione ereditaria (art. 230 bis, 5° comma, c.c.). Il profilo procedimentale della prelazione [continua ..]
Già si è visto come la l. n. 76/2016 abbia esteso alle unioni civili fra persone dello stesso sesso la disciplina dell’impresa familiare. Coniuge e persona civilmente unita all’imprenditore potranno far parte dell’impresa familiare, in quanto il rapporto che lega entrambi all’imprenditore risulta giuridicamente conformato (matrimonio da un lato, unione civile dall’altro), a prescindere dal genere. Come è noto, l’unione civile non dà luogo a vincoli di affinità tra chi l’ha costituita e i parenti dell’altro, per non essere stata richiamata dalla l. n. 76/2016 la disciplina di cui all’art. 78 c.c. Da tanto consegue che l’art. 230 bis c.c. non tornerà applicabile ove all’impresa del civilmente unito collaborino i parenti dell’altro. Si tratta di una scelta del legislatore, francamente poco razionale e suscettibile di una questione di legittimità costituzionale.
Pur a fronte della riconosciuta tassatività dell’individuazione dei soggetti legittimati a far parte dell’impresa familiare, si discuteva in passato quanto alla possibilità di configurare il convivente more uxorio quale componente dell’impresa familiare. La prevalente giurisprudenza di legittimità la negava [9]; quella di merito talora lo ammetteva [10]. In questo conteso la l. n. 76/2016, all’art. 1, 46° comma, ha introdotto il già più volte citato art. 230 ter c.c., nel tentativo, non felicemente riuscito, di contemperare le posizioni sopra richiamate. La norma delinea una particolare forma di compartecipazione in un’attività d’impresa tra titolare e convivente; se collaborassero all’impresa anche familiari del primo, si applicherebbe sia l’art. 230 ter, sia l’art. 230 bis; in mancanza di rapporto di coniugio, analogamente a quanto si è visto per le unioni civili, i parenti del convivente non potrebbero rientrare tra i collaboratori. Come è noto, l’art. 1, 36° comma, l. n. 76/2016 stabilisce che la convivenza è giuridicamente rilevante quando si instauri tra due persone maggiorenni, unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da unione civile. Tale definizione è, dunque, fondamentale per individuare i destinatari della disciplina dell’impresa familiare prevista dall’art. 230 ter c.c. Ai sensi della disposizione citata, i conviventi possono essere due persone dello stesso sesso o di sesso diverso, ma non devono aver contratto matrimonio o un’unione civile, né tanto meno essere parenti. Per l’accertamento della stabile convivenza, l’art. 1, 37° comma, l. 20 maggio 2016, n. 76 prevede che si debba far riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all’art. 4, d.p.r. 30 maggio 1989, n. 223: si richiede, pertanto, che entrambi i conviventi siano iscritti nella famiglia anagrafica, ossia vi sia una coabitazione risultante da un certificato di stato di famiglia. Si pone dunque il grande problema, subito emerso dopo l’entrata in vigore della l. n. 76/2016 circa la natura delle dichiarazioni anagrafiche in materia di convivenza di fatto, che i Comuni hanno predisposto [continua ..]