1. L. 4 aprile 2001, n. 154 - 1.1. Le modifiche intervenute alla l. n. 154/2001 - 1.2. Le norme - 2. Violenza e abuso familiare - 3. I presupposti per l'emissione del provvedimento - 3.1. La condotta pregiudizievole - 3.2. Il grave pregiudizio all'integrità fisica, morale e alla libertà - 3.3. Il requisito della gravità - 3.4. Il nesso di causalità - 4. Ordine di protezione e procedimento di separazione o divorzio - 4.1. Prima dell'udienza presidenziale - 4.2. Dopo l'udienza presidenziale - 4.3. Davanti al giudice istruttore - 4.4. I coniugi separati - 4.5. Dopo il divorzio - 5. Il contenuto dell'ordine di protezione - 6. L'intervento dei servizi sociali, dei centri di mediazione e delle case protette - 7. Difficoltà e contestazioni nell'esecuzione - 8. Revoca dei provvedimenti emessi - NOTE
La l. n. 154/2001 si distingue per aver introdotto una doppia tipologia di misure (di contenuto non proprio identico), che sono costituite: 1) dalla misura cautelare coercitiva dell’allontanamento dalla casa familiare e 2) dall’ordine di protezione civile. La legge si compone di otto articoli. L’art. 1 ha introdotto l’ordine di protezione nel processo penale nell’art. 282 bis c.p. ed ha accresciuto di un 2° comma l’art. 291 c.p. che estende alle varie misure cautelari le misure patrimoniali provvisorie dell’ordine di protezione penale. I restanti articoli regolamentano invece le misure protettive in materia civile (sostanziale e processuale) e le conseguenze penali della loro violazione. In particolare, l’art. 2 ha modificato il nostro codice civile dove, nel primo libro, che ha per oggetto le persone e la famiglia, è stato inserito il Titolo IX-bis recante la disciplina degli ordini di protezione contro gli abusi familiari. I presupposti degli ordini protettivi civili vengono delineati dall’art. 342 bis c.c., mentre il 342 ter c.c. ne specifica il contenuto. Le disposizioni processuali sono state introdotte invece dall’art. 3 che ha inserito nel codice di procedura civile il Capo V-bis e l’art. 736 bis. Il Legislatore ha realizzato così un sistema di protezione a doppio binario per offrire alla vittima di violenze familiari una doppia tutela. Sia sul piano civile che su quello penale, rimettendo alla vittima stessa la scelta degli strumenti protettivi da utilizzare. Naturalmente la vittima ricorrerà più facilmente al giudice penale laddove l’esigenza di tutela si inserisca in un ampio quadro di condotte delittuose configuranti i reati tipici del focolare domestico.
L’ordine protettivo penale non è stato mai emendato mentre due sono le modifiche apportate dal Legislatore all’ordine di protezione civile. La prima, la più importante, è stata introdotta con la l. 6 novembre 2003, n. 304, che nell’art. 342 bis c.c. ha abrogato la locuzione «qualora il fatto non costituisca reato perseguibile d’ufficio», così permettendo al giudice civile di emettere il provvedimento anche in presenza di condotte integranti fattispecie di reato perseguibile d’ufficio. La seconda è stata introdotta con la l. 23 aprile 2009, n. 38, che nell’art. 342 ter, 3° comma, c.c., ha sostituito le parole «sei mesi» con «un anno». L’aumento della durata dell’ordine protettivo permette alle parti di trovare delle soluzioni più radicali alla crisi familiare, evitando la necessità di ricorrere all’istanza di proroga del termine.
Art. 282 bis c.p. Allontanamento dalla casa familiare Con il provvedimento che dispone l’allontanamento il giudice prescrive all’imputato di lasciare immediatamente la casa familiare, ovvero di non farvi rientro, e di non accedervi senza l’atorizzazione del giudice che procede. L’eventuale autorizzazione può prescrivere determinate modalità di visita. Il giudice, qualora sussistano esigenze di tutela dell’incolumità della persona offesa o dei suoi prossimi congiunti, può inoltre prescrivere all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa, in particolare il luogo di lavoro, il domicilio della famiglia di origine o dei prossimi congiunti, salvo che la frequentazione sia necessaria per motivi di lavoro. In tale ultimo caso il giudice prescrive le relative modalità e può imporre limitazioni. Su richiesta del pubblico ministero, il giudice può altresì ingiungere il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi che, per effetto della misura cautelare disposta, rimangano prive di mezzi adeguati. Il giudice determina la misura dell’assegno tenendo conto delle circostanze e dei redditi dell’obbligato e stabilisce le modalità ed i termini del versamento. Può ordinare, se necessario, che l’assegno sia versato direttamente al beneficiario da parte del datore di lavoro dell’obbligato, detraendolo dalla retribuzione a lui spettante. L’ordine di pagamento ha efficacia di titolo esecutivo. I provvedimenti di cui ai commi 2 e 3 possono essere assunti anche successivamente al provvedimento di cui al 1° comma, sempre che questo non sia stato revocato o non abbia comunque perduto efficacia. Essi, anche se assunti successivamente, perdono efficacia se è revocato o perde comunque efficacia il provvedimento di cui al 1° comma. Il provvedimento di cui al 3° comma, se a favore del coniuge o dei figli, perde efficacia, inoltre, qualora sopravvenga l’ordinanza prevista dall’art. 708 c.p.c. ovvero altro provvedimento del giudice civile in ordine ai rapporti economico-patrimoniali tra i coniugi ovvero al mantenimento dei figli. Il provvedimento di cui al 3° comma può essere modificato se mutano le condizioni dell’obbligato o del beneficiario, e viene revocato se [continua ..]
I maltrattamenti endo-familiari rappresentano una forma di violenza che è stata riconosciuta come tale solo negli ultimi dieci anni, e che risente di un retaggio culturale che tendeva a minimizzarla e a giustificarla, riducendo le condotte a meri conflitti coniugali (o tra conviventi), cui non si doveva dare troppa importanza e destinati ad essere contenuti all’interno delle mura domestiche. La violenza in famiglia è un fenomeno che si manifesta con condotte aventi modalità ed intensità sempre diverse, che vanno a ledere molteplici aspetti della persona umana, non solo il corpo ma anche e, soprattutto, la mente, gli affetti, lo spirito. La difficoltà di dare una definizione della violenza in famiglia ha reso necessario individuare la traccia comune di tutte queste condotte per giungere a qualificare il fenomeno in base alla finalità a cui gli atti sono diretti. Ovvero la sopraffazione del familiare debole attraverso strategie umilianti e dolorose – che cagionano a chi le subisce penosissime condizioni di vita – espressione di potere e controllo volte a sottomettere la vittima. Nel titolo dell’art. 342 bis c.c., il Legislatore è ricorso al termine di abuso familiare per chiarire quali sono i presupposti indispensabili per richiedere al giudice civile la pronuncia di un ordine di protezione. Ovvero, che la condotta da sanzionare si sia realizzata in ambito di rapporti di famiglia e che sia stata tale da determinare un sostanziale pregiudizio alla sfera dell’integrità psicofisica e/o alla libertà personale della vittima. Questa previsione non era naturalmente necessaria nell’impianto penale dove il delitto di per sé implica l’abuso, il sopruso e il pregiudizio della vittima. Il Legislatore ha scelto di non definire l’abuso così da includervi ogni comportamento in cui si realizza la violenza domestica. Quindi, la nozione di “abuso familiare” è certamente più ampia rispetto a quella di “reato familiare” perché per la sua configurazione è sufficiente una condotta anche solo idonea a cagionare un pregiudizio. In questo modo, il Legislatore ha davvero costruito un sistema di tutela molto flessibile e adattabile alle varie esigenze dei casi concreti. Salvaguardando i soggetti deboli della famiglia, da tutte le forme di prevaricazione [continua ..]
La differenza tra l’ordine penale e quello civile è immediata. In ambito civile la vittima può ricorrere direttamente al giudice mentre in quello penale la vittima deve avere proposto denuncia/querela con o senza richiesta dell’ordine protettivo, la cui necessità, infatti, sarà prima valutata dal PM e poi dal giudice per le Indagini preliminari, deputato alla sua pubblicazione. In ambito penale l’incolumità della persona offesa è il motore che spinge il Pubblico Ministero a chiedere al GIP l’emissione dell’ordine di cui all’art. 282 bis c.p.p. Sul piano civile, invece, condotta, pregiudizio e nesso di causalità (la cui sussistenza è presupposto cardine), possono estrinsecarsi in vari comportamenti da valutare analiticamente e singolarmente, caso per caso.
La l. n. 154/2001 non definisce né identifica il minimum di condotta in grado di determinare l’applicazione dell’ordine di protezione. La legge individua solo l’illegittimo evento dannoso (conseguenza della condotta) ovvero «il grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente». Quindi, la condotta può: (a) integrare una fattispecie di reato; oppure (b) configurare un atto che non è perseguibile penalmente ma tuttavia capace di causare un pregiudizio all’integrità fisica o morale o alla libertà personale. Questo significa che nella nozione di condotta pregiudizievole rientrano, non solo le condotte integranti i reati che più di frequente si realizzano in ambito familiare ma anche le vessazioni psicologiche o addirittura le mere intimidazioni. Sul punto è interessante la definizione del Tribunale di Bari «Le violente aggressioni verbali e minacce di arrecare mali ingiusti ledono in modo attuale e concreto l’integrità morale e la libertà del convivente e sono tali da giustificare, in mancanza di fatti integranti reati perseguibili d’ufficio, l’adozione da parte del Giudice civile dei provvedimenti ex art. 342 ter c.c.» [138]. La condotta pregiudizievole è una dizione molto ampia, all’interno della quale possono comprendersi, oltre ai delitti, una serie indefinita di comportamenti idonei ad arrecare effettivo e serio pregiudizio all’altra persona nei suoi diritti fondamentali e della personalità. La giurisprudenza di merito si è preoccupata di fornire una definizione della condotta pregiudizievole, concludendo (1) in via generale, che si debba trattare di reiterate azioni, ravvicinate nel tempo e consapevolmente dirette a ledere i beni tutelati dalla norma, in modo che ne sia gravemente alterato il regime di normale convivenza familiare [139]; (2) senza con ciò escludere, tuttavia, la sussistenza di una condotta pregiudizievole anche nel verificarsi di un solo episodio violento, così grave, da far temere la sua reiterazione [140].
Il pregiudizio all’integrità fisica e morale si verifica quando la persona è vittima di atti di violenza fisica o verbale che incidono direttamente sul corpo o sulla sua sfera psichica. Oppure di comportamenti diretti anche verso altri soggetti, che provocano un considerevole sconvolgimento nella vita familiare. Nell’interpretare il concetto di evento pregiudizievole si fa riferimento alle elaborazioni formulate in sede penale, in materie di delitti contro la persona. In questo modo, il pregiudizio all’integrità fisica si realizza tutte le volte che la persona è vittima di atti di violenza, direttamente incidenti sul suo corpo (ad es. lesioni, percosse, ecc.). L’integrità morale attiene al patrimonio di valori di cui il soggetto è titolare, coincidenti, sostanzialmente, con quelli previsti e tutelati dalla Costituzione, oltre che dalla legge penale (ad es. lesioni all’onore, alla reputazione, alla libertà sessuale, ecc.). La categoria include nel proprio ambito di applicazione oggettivo anche il pregiudizio all’integrità psichica (ovvero il diritto alla salute ex art. 32 Cost.) particolarmente soggetto ad essere leso nei rapporti familiari patologici. La libertà personale viene, invece, violata in ogni caso di illecita intromissione nella sfera privata dei comportamenti e delle scelte individuali. E si estende a tutti quei profili che riguardano la capacità del soggetto di autodeterminarsi e che consentono al soggetto di realizzare le proprie scelte.
L’entità del danno deve essere valutata in relazione all’essenzialità delle situazioni giuridiche soggettive colpite. Per questa ragione, anche degli atti apparentemente non caratterizzati in sé da una estrema gravità, possono invece assumere rilevanza nel contesto familiare. La soglia di gravità può dirsi raggiunta quando gli episodi lesivi siano tali – per quantità e reiterazione, ma soprattutto per intensità – da alterare o stravolgere l’ordinario assetto dei rapporti tra i componenti del nucleo familiare. Nel senso di rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, se non mettendo a rischio, appunto, i beni della integrità fisica e morale o della libertà degli altri familiari. Più nello specifico, la giurisprudenza ha precisato che «per potersi dare “grave pregiudizio all’integrità morale” di una persona, deve verificarsi un vulnus alla dignità dell’individuo di entità non comune, vuoi per la particolare delicatezza dei profili della dignità stessa concretamente incisi, vuoi per le modalità “forti” dell’offesa arrecata, vuoi per la ripetitività o la prolungata durata nel tempo della sofferenza patita» [141]. E ciò, prescindendo da qualsiasi indagine sulle cause di tali comportamenti e sulle rispettive colpe nella determinazione della situazione [142]. Va registrato, in ogni caso, che, a differenza della condotta (che può concretizzarsi in qualsiasi comportamento illecito), la individuazione del pregiudizio è regolata dal principio di determinatezza, che limita a queste tre tipologie (integrità fisica, morale e libertà) la configurabilità dell’abuso familiare. Si tratta di categorie sicuramente ampie. Ed è evidente che, anche in questa occasione, il Legislatore ha scelto espressioni che consentono ampi spazi di intervento giudiziale. La dottrina ha poi dibattuto sull’eventualità che il “grave pregiudizio” debba essersi già verificato o se sia sufficiente che appaia solo come altamente probabile. Da molti è stata ritenuta sufficiente la imminenza del pregiudizio considerando che il sistema degli ordini di protezione non prevede la necessità della attualità del pregiudizio stesso.
Il terzo ed ultimo presupposto è rappresentato dal nesso di causalità tra la condotta illecita e l’evento pregiudizievole. Elemento che consente di attribuire al comportamento antigiuridico dell’autore della violenza, il danno provocato all’integrità psicofisica e alla libertà della vittima dell’abuso. Quindi, nella dinamica della normativa, la condotta dell’abusante non rileva e non può rilevare in sé, nonostante sia qualificabile come antigiuridica. La condotta potrà determinare invece l’emissione dell’ordine di protezione solo se causativa di un grave pregiudizio all’integrità fisica e morale ovvero alla libertà della vittima. La dottrina ha infine sottolineato che tra il comportamento e il pregiudizio deve sussistere un rapporto di proporzionalità. Quindi, qualora il compimento di atti di lieve entità generi turbamenti sproporzionati rispetto alla condotta, il pregiudizio all’integrità o alla libertà non può attribuirsi alla responsabilità dell’autore ma piuttosto alla particolare fragilità del soggetto passivo o a fattori esterni che ne condizionano la sua reazione.
In ambito penale l’ordine di protezione non è influenzato dai procedimenti di separazione e divorzio e potrà sempre essere chiesto (al e) dal PM a, GIP. Fa eccezione il contributo economico di cui al 3° comma dell’art. 282 bis c.p.p. che perde efficacia qualora sopravvenga l’ordinanza presidenziale ovvero altro provvedimento del giudice civile in ordine ai rapporti economico-patrimoniali tra i coniugi ovvero al mantenimento dei figli. In ambito civile, invece, i rapporti tra il procedimento di separazione o divorzio e ordini di protezione sono regolati dall’art. 8 della l. (n. 154/2001), intitolato “Ambito di applicazione”. Duplice l’ipotesi: prima e dopo l’udienza presidenziale.
La domanda per l’emissione dell’ordine di protezione è ammissibile nelle more tra il deposito del ricorso [per separazione/divorzio] e l’udienza presidenziale. L’ordine protettivo, infatti, controllerà provvisoriamente quel periodo “privo di protezioni”, nel caso in cui i coniugi non riescano a gestire pacificamente questo delicato momento. Il decreto protettivo, però, perde efficacia quando sia successivamente pronunciata l’ordinanza interinale. È evidente, che si tratta di un’inefficacia causata dal carattere sostitutivo attribuito dalla legge al provvedimento presidenziale. E, naturalmente, durante l’udienza di comparizione dei coniugi avanti al presidente, la vittima deve espressamente domandare la conferma dell’efficacia dell’ordine già emesso. Ovvero la traduzione dell’ordine di protezione nell’ordinanza del presidente. Interessante un provvedimento del tribunale di Milano che, in un contesto di conflittualità accertata e di grave pregiudizio della moglie, ha allontanato il marito «atteso, inoltre, che ella appare, allo stato, il coniuge cui è ipotizzabile sarà assegnata la casa coniugale presso la quale vivrà il figlio che nascerà a breve» [143].
Dopo l’udienza di comparizione dei coniugi avanti al presidente è precluso l’accoglimento del ricorso contro gli abusi familiari, anche se il presidente si è riservato. Naturalmente fino alla pubblicazione dell’ordinanza, rimane valido ed efficace l’eventuale decreto protettivo già emesso.
Dopo l’ordinanza presidenziale, i provvedimenti contro gli abusi familiari possono essere sempre assunti dal giudice istruttore su istanza di parte nel corso del giudizio. Da tenere, però, presente: (a) che il GI non provvederà con il decreto previsto nell’art. 736 bis c.p.c. ma con ordinanza modificabile e revocabile ex art. 710 c.p.c. ovvero ai sensi dell’art. 4 l. divorzio; (b) che durante il procedimento di separazione o divorzio, gli ordini di protezione non possono essere assunti inaudita altera parte. Lo si desume dal fatto che il richiamo dell’art. 8, 1° comma, l. n. 154/2001 prevede che possano essere adottati soltanto i contenuti dei provvedimenti previsti dall’art. 342 ter c.c. Sul piano applicativo, è evidente che nell’ordine di protezione emesso successivamente all’ordinanza presidenziale (i) non sarà possibile prevedere un assegno a carico del datore di lavoro. Perché esiste una norma ad hoc. Ovvero l’art. 156, 6° comma, c.c. e l’art. 8 l. divorzio e (ii) non sarà ammissibile nemmeno la richiesta di allontanamento dalla casa familiare se il coniuge ne sia già assegnatario. Ovvero, sia già munito del titolo esecutivo per conseguire il medesimo fine cui è volto l’ordine di protezione invocato (allontanamento dalla casa coniugale con eventuale ricorso alla forza pubblica, consentito sia dall’art. 613 c.p.c., sia dall’art. 342 ter c.c.).
L’illecito è configurabile anche successivamente alla separazione di fatto o giudiziale. La legge non si esprime rispetto al periodo che intercorre tra la separazione ed il divorzio. Si tratta comunque di un momento della relazione familiare, per un verso, regolata dal provvedimento di separazione (che sia il verbale omologato o la sentenza) ma, per altro, in cui l’abuso può caratterizzarsi significativamente ed avvenire nell’ambito di una situazione familiare. E quindi è evidente che gli ordini di protezione si ritengono applicabili al coniuge separato. Nella protezione del coniuge separato sono incluse anche le minacce dirette contro il nuovo partner qualora si risolvano nella lesione mediata del coniuge separato.
Non è, invece, possibile far ricorso all’ordine di protezione civile nel caso di abusi perpetrati da un ex coniuge a danno dell’altro dopo che sia stata pronunciata la sentenza di divorzio, o successivamente alla dichiarazione di nullità del matrimonio. La lettera dell’art. 342 bis c.c. non lascia, infatti, spazio ad una diversa interpretazione. Allo stesso modo, l’art. 5 della l. n. 154/2001, che fa riferimento al «nucleo familiare», non permette di includere l’ex coniuge, che si trova al di fuori di esso, a meno che non sia stata ripresa una relazione tra gli ex coniugi, che viene a quel punto qualificata come more uxorio e, come tale, consente l’applicabilità degli ordini di protezione.
Gli strumenti di tutela civile possono essere classificati in vari modi. Principalmente si dividono in due gruppi: (I) da una parte, c’è l’ordine di cessazione della condotta pregiudizievole, che costituisce il nucleo essenziale dei mezzi di tutela e che, quindi, deve essere sempre pronunciato; (II) dall’altra, ci sono le misure di carattere esclusivamente sussidiario ed eventuale (l’allontanamento dalla casa familiare; il divieto di frequentazione dei luoghi; l’ordine di pagamento; l’ordine di versamento diretto da parte del datore di lavoro). In relazione al loro contenuto, tutti gli ordini di protezione si distinguono in due tipologie: (1) quelli aventi carattere personale, relativi ai rapporti tra i familiari e (2) quelli aventi natura patrimoniale. Esistono poi due principi che regolano i rapporti tra le diverse misure di protezione. Il primo è la reciproca autonomia delle stesse, che rende flessibili le varie forme di tutela. Autonomia desumibile, peraltro, dall’art. 342 bis c.c. che fa espresso riferimento a «uno o più»provvedimenti, tra i quali, naturalmente, dovrà necessariamente rientrare la misura principale dell’ordine di cessazione della condotta, alla quale si possono affiancare le altre misure che si rivelino utili per la concreta protezione della vittima. Il secondo principio è la loro adeguatezza rispetto agli effetti auspicati. Linee guida che realizzano un sistema fondato sulla gradualità delle misure di protezione che il giudice dovrà rispettare nella scelta della misura da applicare. In ambito penale il contenuto dell’ordine protettivo è molto simile. Manca l’ordine di cessazione della condotta che si ritiene tuttavia implicito nel provvedimento assunto.
L’art. 342 ter c.c. permette al giudice di disporre: (1) l’intervento dei Servizi Sociali o (2) di un centro di mediazione familiare, nonché (3) delle associazioni di accoglienza di donne e minori o di altri soggetti vittime di abusi e maltrattamenti. Questa iniziativa non è stata estesa all’ambito penale. Nella prospettiva dell’esaurimento degli effetti dell’ordine di protezione, queste previsioni sono finalizzate sia al sostegno delle parti durante l’attuazione della misura protettiva, che al recupero dei rapporti familiari o al definitivo allontanamento. L’intervento dei Servizi Sociali è più frequentemente utilizzato nei casi sottoposti all’attenzione del giudice minorile, ma il Legislatore del 2001 ha condivisibilmente ritenuto utile l’espresso richiamo del ricorso alle strutture territoriali che in molti casi sono già a conoscenza della difficoltà dell’utente. Spesso, infatti, il coniuge debole si è già rivolto alla struttura pubblica per avere un sostegno psicoterapico e/o per conoscere i propri diritti. Il servizio pubblico è utile al giudice: (a) che procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione necessari assumendo, ove occorra, nei casi di urgenza, sommarie informazioni sulla situazione della famiglia direttamente dagli operatori sociali così da comprenderne le effettive dinamiche e necessità protettive; (b) per garantire al genitore allontanato la continuità della funzione genitoriale e la frequentazione dei figli minori (laddove naturalmente non sussista rischio di pregiudizio). Sulle case protette ci basti che svolgono ancora un ruolo fondamentale ed attualissimo. Anche perché la solitudine nella casa familiare può costituire fonte di disagio nella fase post-traumatica della vittima. Peraltro, nel disporre il provvedimento, il giudice dovrà innanzitutto tenere presente l’eventuale sussistenza di un rapporto positivo già stabilito personalmente dalla vittima con una determinata associazione. L’intervento del Centro di mediazione familiare ha invece uno scopo diverso, ovvero quello di verificare la disponibilità delle Parti al raggiungimento di un accordo globale che renda il meno doloroso possibile lo “scioglimento” del nucleo. Si ritiene di fondamentale importanza che [continua ..]
Nell’ambito delle modalità attuative, l’ultimo comma dell’art. 342 ter c.c. precisa che il giudice può prevedere l’ausilio della forza pubblica e dell’ufficiale sanitario laddove ritenga possano insorgere difficoltà o contestazioni in ordine all’esecuzione dell’ordine di protezione. In realtà, il tenore letterale del disposto codicistico lascia immaginare un intervento del giudice anche successivo all’inosservanza del provvedimento da parte dell’allontanato. La giurisprudenza, tuttavia, ha interpretato la norma nel senso di prevedere direttamente e anticipatamente l’eventuale intervento della forza pubblica e/o dell’ufficiale sanitario per non mettere a repentaglio la tutela della vittima nelle more dell’integrazione del provvedimento. Anche in questo caso è importante che l’ordine del giudice indichi espressamente la forza pubblica territoriale (cfr. tra le tante, Trib. Milano 4 dicembre 2008, r.g. n. 74996/2008 – inedita – «ordina che al presente decreto venga data esecuzione, anche con l’ausilio della forza pubblica, individuata sin d’ora nei carabinieri di ..., competente per territorio»). Ma è evidente che laddove non sia possibile, non è esclusa una integrazione successiva. Ugualmente utile, non solo per l’emissione del decreto protettivo ma anche eventualmente ai fini dell’addebito, la richiesta di autorizzazione di parte ricorrente alla acquisizione delle relazioni di intervento della forza pubblica altrimenti difficilmente ottenibili (ad esempio Trib. Milano 24 aprile 2009, r.g. n. 72436/2009 – inedita – «autorizza ... ad acquisire dai Carabinieri che sono intervenuti nella casa coniugale in data ... relazione di servizio dell’intervento effettuato ...»).
Gli ordini di protezione mirano (a) a tutelare la vittima dai soprusi e, se possibile, (b) a ricostituire l’armonia nelle relazioni familiari anche con la collaborazione di soggetti esterni, quali i Servizi sociali, i centri di mediazione o, più in generale gli enti di assistenza istituzionalmente preposti alla protezione della famiglia. È quindi naturale che un’eventuale riconciliazione tra vittima e aggressore potrebbe determinare il venir meno dei presupposti che hanno portato alla pronuncia degli ordini di protezione. Sul piano operativo è interessante la previsione dell’art. 282 bis, 5 °comma, c.p.p. che esclude la rinuncia alle misure di tutela sulla base della semplice volontà del soggetto a favore del quale gli ordini sono stati disposti. Nel procedimento civile questa previsione non esiste. Si tratta, infatti, di provvedimenti giudiziali che, in quanto relativi a diritti indisponibili, possono essere revocati solo dal giudice penale, il quale, prima di assumere qualsiasi decisione, è tenuto ad accertare che la riconciliazione sia realmente il frutto di una libera scelta della vittima. Ovvero che la revoca del provvedimento non comporti pericoli per la integrità psicofisica della vittima stessa. Questa flessibilità consente di adattare le misure alla realtà della crisi familiare, differenziando la tutela giudiziale in funzione delle sue varie fasi.