1. Introduzione - 2. Tipologie soggettive e oggettive di violenza familiare - 3. Gli ordini di protezione - 4. Problematiche di diritto sostanziale - 4.1. Presupposti oggettivi - 4.2. Presupposti soggettivi - 4.3. Il contenuto - 4.4. Durata e proroga - 4.5. Modalità e difficoltà di attuazione - 4.6. Sanzioni - 5. Problematiche di diritto processuale - 5.1. Competenza e attribuzioni - 5.2. Scrittura, non obbligatorietà di difesa tecnica e intervento di altre parti - 5.3. Procedimento - NOTE
La famiglia rappresenta un sistema complesso, in cui agiscono individui, ruoli, responsabilità e mansioni. Si tratta di un sistema determinato da vincoli di tipo affettivo, in cui sussistono sia affetti positivi (quali il rispetto, la condivisione, l’amore ed il desiderio sessuale), sia affetti negativi (quali l’odio, la sopraffazione, la violenza, la prevaricazione e la perversione). La famiglia rappresenta, per definizione, uno degli ambiti di potenziale protezione per i suoi membri, ma all’occorrenza può diventare anche un ambiente ostile e pericoloso per l’integrità fisica e psichica dei soggetti che ne fanno parte. Le pareti domestiche possono essere il teatro di frequenti violenze, anche perché talvolta la famiglia si trasforma in un sistema di attribuzioni dei ruoli maschili e femminili in cui prevale da un lato il modello di dominanza e dall’altro quello di sottomissione. La violenza in famiglia, allora, non rappresenta soltanto l’esplosione di un conflitto, ma lo sfogo di insoddisfazioni, tensioni, rabbie, frustrazioni. Gli schemi mentali appresi, le esperienze che hanno caratterizzato la vita pre-matrimoniale ed i comportamenti della famiglia di provenienza, sono gli elementi caratterizzanti il conflitto di coppia. In un ambito di attribuzioni falsate, in quanto non filtrate o non negoziate dai partner, la violenza familiare nasce da spazi di incomprensioni. Fino a pochi decenni or sono, sulla base di una impostazione della famiglia vista come oasi di pace e di armonia da cui ogni forma di violenza è bandita, la donna che denunciava veniva vista come una deviante, una diversa che aveva fallito nel compito assegnatole dalle istituzioni e dalla società, ovvero di mantenere, a tutti i costi, l’unità familiare. Tuttavia, la violenza intesa come prevaricazione fisica, psicologica, sociale, economica e sessuale, esercitata da parte di un soggetto in posizione di forza nei confronti di soggetti più deboli, (quali donne, bambini, anziani e disabili) è un fenomeno sociale di origini remote. Tale fenomeno è stato specificatamente studiato soltanto negli ultimi decenni, sotto l’impulso degli studi condotti negli Stati Uniti d’America, che hanno accelerato l’analisi del fenomeno anche in Europa. Orbene, l’analisi del fenomeno ha portato alla luce cambiamenti culturali rilevanti, la cui [continua ..]
Prima di affrontare le problematiche giurisprudenziali e dottrinali legate agli artt. 342 bis e 342 ter c.c. e 736 bis c.p.c., come introdotti nel codice civile e nel codice di procedura civile dalla l. n. 154/2001 e come modificati dalla l. n. 304/2003, è opportuno inquadrare il fenomeno della violenza in famiglia, a cui tali norme si propongono di porre rimedio, dalla giusta prospettiva sociologica, eliminando alcuni pregiudizi molto diffusi nel pensiero comune, secondo i quali la violenza in famiglia: sarebbe propria di contesti sociali degradati; vedrebbe come autori persone affette da disturbi psichici, spesso a causa di droga, alcool o gioco d’azzardo; sarebbe esercitata esclusivamente dal “sesso forte” contro il “sesso debole”. In realtà questa piaga sociale appartiene ad ogni contesto sociale, risultando anzi più difficile da debellare nelle fasce sociali più elevate, in cui è spesso considerata un “fatto privato” tra marito e moglie, con conseguente riluttanza a rivolgersi ai servizi socio-sanitari pubblici; è spesso opera di “insospettabili”, persone perfettamente inserite nella società, senza alcuna manifestazione evidente di problemi psichici; sebbene più spesso frutto del comportamento di un uomo verso una donna, è in taluni, pur rari, casi, frutto del comportamento di una donna verso un uomo. I tipi di violenza, che il legislatore, negli ultimi anni, ha mostrato di voler arginare, sono vari, sia dal punto di vista soggettivo che oggettivo [65]. Da un punto di vista soggettivo, non si tratta solo di violenza fra coniugi o conviventi, ma anche, solo per fare alcuni esempi, di relazioni: 1) figlio/genitore; 2) fratello/sorella; 3) nipote/nonno. Da un punto di vista oggettivo, la violenza, finalizzata alla sopraffazione del familiare debole attraverso umiliazioni e vere e proprie aggressioni fisiche, si può realizzare con diverse modalità [66]. Abbiamo, infatti, in una ideale grammatica della violenza: la violenza psicologica: atteggiamenti penetranti ma sottili (ad esempio, intimidazioni, minacce, vessazioni, denigrazioni, rimproveri continui e persecutori), tali da non essere, in un primo momento, nemmeno percepiti come violenza da parte della stessa vittima[67]; la violenza fisica: non solo produrre lividi, ferite e fratture, ma anche urlare e [continua ..]
Gli ordini di protezioni [71] vengono introdotti dalla l. n. 154/2001, che con gli artt. 342 bis e 342 ter c.c. (con il relativo art. 736 bis c.p.c.) si propone di fornire un rimedio pure a quelle situazioni di abuso non sfocianti in una separazione giudiziale o in un divorzio (non essendo applicabili laddove, come vedremo meglio più avanti, sia in corso un procedimento di questo genere), la famiglia non è più una “zona franca” in cui gli interessi degli individui sono compressi in nome del “superiore interesse” del gruppo, ma piuttosto il luogo in cui ciascun membro può «meglio coltivare i propri interessi individuali in vista di una più completa realizzazione». L’istituto dell’ordine di protezione contro gli abusi familiari è, pertanto, uno strumento duttile, capace di adattarsi a situazioni molto diverse, secondo la prudente valutazione del giudice ed è perfettamente coerente con il volto costituzionale della famiglia ispirato ai valori dell’uguaglianza morale e giuridica nei rapporti tra i coniugi e con i figli [72]. E la normativa in esame ha, pure, influenzato anche il campo della responsabilità civile, dato la Corte di Cassazione ha consolidato il principio di applicazione dell’art. 2043 c.c. (già accennato, fra l’altro, da Cass. n. 7713/2000), ritenendo che «il rispetto della dignità e della personalità, nella sua interezza, di ogni componente del nucleo familiare assume il connotato di un diritto inviolabile, la cui lesione da parte di altro componente della famiglia costituisce il presupposto logico della responsabilità civile, non potendo da un lato ritenersi che diritti definiti inviolabili ricevano diversa tutela a seconda che i titolari si pongano o meno all’interno di un contesto familiare [...]; e dovendo dall’altro lato escludersi che la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio [...] riceva la propria sanzione, in nome di una presunta specificità, completezza ed autosufficienza del diritto di famiglia, esclusivamente nelle misure tipiche previste da tale branca del diritto [...], dovendosi invece predicare una strutturale compatibilità degli istituti del diritto di famiglia con la tutela generale dei diritti costituzionalmente garantiti, con la conseguente, concorrente rilevanza di un [continua ..]
L’art. 342 bis c.c. afferma che, «quando la condotta del coniuge o di altro convivente è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente, il giudice, su istanza di parte, può adottare con decreto uno o più provvedimenti di cui all’art. 342 ter c.c.». Pertanto, per l’applicazione dei provvedimenti di cui all’art. 342 ter c.c. (vale a dire, appunto, gli ordini di protezione contro gli abusi familiari) è necessario che: vi sia una condotta causa di «grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà»della vittima della condotta stessa; tale condotta si verifichi all’interno di unarelazione familiare. Poiché il requisito di cui al punto 2) riguarda i presupposti soggettivi degli ordini di protezione di cui agli artt. 342 bis e ter, bisogna, ora, appuntare l’attenzione sul requisito di cui al punto 1), esaminando, nell’ordine, i seguenti concetti: a)“condotta pregiudizievole”; b)“integrità fisica o morale” e “libertà”; c)“grave pregiudizio”. A questi tre concetti, facilmente desumibili dal testo della norma, se ne aggiungerà un quarto, d)il “nesso di causalità” fra la “condotta pregiudizievole” e il “grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà”. La condotta pregiudizievole Analizzando il testo della norma, emerge immediatamente come il legislatore abbia scelto un criterio di atipicità dell’illecito, non definendo le caratteristiche della condotta [75], se non in relazione a quel “pregiudizio” che analizzeremo in seguito: dunque, la condotta è tale da integrare gli estremi necessari per l’applicazione degli ordini di protezione qualora sia, appunto, «causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà» di un familiare, vale a dire produttiva di un illegittimo evento dannoso contro uno di questi beni giuridici costituzionalmente tutelati. Il concetto di «abuso familiare» non è, pertanto, definito di per sé, ma soltanto in relazione ai suoi effetti: è abuso familiare [continua ..]
Come si è visto, i presupposti necessari per l’adozione degli ordini di protezione sono due. Il primo è l’esistenza di una condotta da cui derivi grave pregiudizio per l’integrità fisica o morale ovvero per la libertà di una persona, ed è stato esaminato nelle pagine precedenti. Il secondo riguarda i soggetti coinvolti, dato che la condotta, secondo l’art. 342 bis c.c., deve avere come protagonisti, sia dal lato attivo che da quello passivo, due soggetti che siano fra loro coniugi o conviventi, prevedendo, poi, l’art. 5, l. n. 154/2001 l’estensione dell’ambito di applicabilità della normativa anche alla condotta tenuta “da un altro componente del nucleo familiare” ovvero «nei confronti di altro componente del nucleo familiare diverso dal coniuge o dal convivente». La normativa in esame accoglie dunque una nozione estesa di “famiglia”, comprendente ogni forma di parentela e di convivenza stabile, con piena equiparazione, dunque, fra matrimonio e convivenza more uxorio [95]. Si consideri, poi, che nel diritto penale il richiamo contenuto nell’art. 572 c.p. alla “famiglia” va inteso riferito ad ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo [96]. Coniugi Ovviamente il primo caso in cui la disciplina degli ordini di protezione è quello della condotta di un coniuge nei confronti di un altro coniuge. Il legislatore ha, in tal modo, riconosciuto legittimazione attiva a proporre istanza per l’emanazione di un ordine di protezione al coniuge del familiare maltrattante assecondando un dato criminologico incontestabile secondo cui la maggior parte degli episodi di violenza interviene ad opera del marito ai danni della moglie. Le ricerche empiriche hanno, poi, evidenziato che le esplosioni più intense di violenza occorrono in corrispondenza della manifestazione, da parte della vittima della volontà di porre fine al vincolo coniugale. E proprio con riguardo a queste situazioni si è posto nella prassi il problema se considerare la perdurante convivenza tra i coniugi quale requisito indispensabile per l’ammissibilità della misura in tutti quei casi in cui, proprio a causa della condotta [continua ..]
L’art. 342 ter c.c. indica tassativamente quale deve essere il contenuto degli ordini di protezione, che è, dunque, tipico, e il giudice può graduarlo, nel caso concreto, secondo il livello di protezione necessario per reprimere l’abuso e prevenirne la reiterazione. Si tratta, cioè, di misure elastiche, cumulabili fra loro secondo necessità, in un rapporto di reciproca autonomia. Possiamo però distinguere, a grandi linee, fra contenuto necessario dell’ordine di protezione e contenuto eventuale. Costituiranno contenuto necessario degli ordini di protezione: la cessazione della condotta e, stando alla lettera della norma (macontra, come abbiamo in parte già visto, la maggioranza della dottrina e della giurisprudenza); l’allontanamento dalla casa familiare. Ne costituiranno, invece, contenuto eventuale (“ove occorra”): il divieto di avvicinarsi «ai luoghi abitualmente frequentati dall’istante, ed in particolare al luogo di lavoro, al domicilio della famiglia d’origine, ovvero al domicilio di altri prossimi congiunti o di altre persone ed in prossimità dei luoghi di istruzione dei figli della coppia», a meno che l’aggressore non debba frequentare questi luoghi per esigenze lavorative; l’intervento dei servizi sociali del territorio o di un centro di mediazione familiare, nonché delle associazioni che abbiano come fine statutario il sostegno e l’accoglienza di donne e minori o di altri soggetti vittime di abusi e maltrattati; il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi rimaste prive di mezzi adeguati in seguito all’adozione degli ordini di protezione. Questa classificazione permette di affermare che, se da una parte non è smentita la reciproca autonomia fra le diverse misure, non è però possibile adottare un ordine di protezione che contenga esclusivamente una o più misure qui classificate come eventuali in assenza di ciò che ne costituisce contenuto necessario. In particolare, lo stesso testo normativo (che parla di persone rimaste prive di mezzi «per effetto dei provvedimenti di cui al primo comma») fa propendere la giurisprudenza per negare la possibilità di configurare l’ordine di pagamento periodico di somme di denaro in assenza della [continua ..]
Gli ordini di protezione sono, per loro stessa natura, provvisori, prevedendo la legge che il giudice, nel decreto con cui li prescrive, ne stabilisca anche la durata, comunque non superiore ad un anno ex lege 23 aprile 2009, n. 38 (prima il termine era di sei mesi) e decorrente dal momento di effettiva esecuzione. In questo periodo si dovrà tentare la riconciliazione, per cui potranno verificarsi due diverse situazioni. Nella prima, la crisi sarà ricomposta, eventualmente anche prima della scadenza, con la possibilità, per il giudice, di revocare l’ordine di protezione o graduarlo in senso meno limitante. Nella seconda, la crisi non sarà ricomposta. A questo punto, si potrà avviare un procedimento di separazione o divorzio oppure, più semplicemente, la vittima si troverà una diversa sistemazione, qualora la casa familiare sia di proprietà dell’aggressore, nel caso delle convivenze more uxorio. Tuttavia, si potrà richiedere una proroga, con due precisazioni: 1) sarà necessaria la sussistenza di “gravi motivi”; 2) dovrà essere limitata al tempo “strettamente necessario”. Con riferimento ai gravi motivi si impone un’interpretazione non particolarmente rigorosa nel senso di riconoscere rilevanza anche a fatti e comportamenti che pur senza tradursi direttamente in nuovi episodi di violenza, tuttavia siano tali, tenuto conto delle contingenze del caso concreto e in particolare della situazione di conflitto venutasi a determinare, da generare ulteriori occasioni di contrasto ed esporre nuovamente a pregiudizio la persona protetta. La proroga sarà, così, disposta non semplicemente in caso di violazione dell’ordine di protezione ma nel caso di reiterazione della condotta pregiudizievole. La durata della proroga risulterà, poi, da una complessa opera di bilanciamento tra condizioni della vittima, condizioni del colpevole ed esigenze degli altri membri del nucleo familiare. Ferma restando la natura provvisoria degli ordini di protezione, che dunque non potranno, tramite l’istituto della proroga, assumere una portata effettivamente definitiva, dal testo della norma non si può desumere il divieto di più proroghe successive. In giurisprudenza si è ritenuto che «la mancata indicazione del termine di durata deve intendersi come implicita previsione del [continua ..]
Come abbiamo visto, gli ordini di protezione incidono su beni giuridici di rilevanza costituzionale, rendendo così necessario, ad esempio, indicare con precisione i luoghi che non devono essere frequentati dall’aggressore. Ma ciò non è sufficiente: il legislatore si è infatti premurato di prevedere che il giudice, con il decreto con cui stabilisce gli ordini di protezione, determini “le modalità di attuazione”. È il giudice, invero, ad aver davanti agli occhi il quadro probatorio e il quadro del conflitto in atto, ed è dunque lui quello che meglio può effettuare il bilanciamento migliore fra le diverse esigenze in gioco. Bisogna precisare (cosa tutt’altro che ovvia) che il bilanciamento va fatto in relazione ad ogni singola misura. Se l’ordine di cessazione della condotta non richiede ulteriori precisazioni (diverse da quelle relative alla descrizione della condotta da cessare), già l’ordine di allontanamento dalla casa familiare richiede, ad esempio, la determinazione concreta degli aspetti relativi al cambio di residenza, al ritiro degli effetti personali, alla visita dei figli. Per quanto riguarda, poi, l’ordine di pagamento periodico dell’assegno, è l’art. 736 bis, 2° comma, c.p.c. che attribuisce immediata efficacia esecutiva al decreto motivato del giudice civile. Qualora, nonostante questa precisione, sorgano difficoltà o contestazioni relativamente all’esecuzione, è lo stesso giudice ad emanare i provvedimenti opportuni, ivi compresi l’intervento della forza pubblica e dell’ufficiale sanitario. Tuttavia sebbene il tenore letterale del disposto codicistico lasci immaginare un intervento del Giudice successivo all’inosservanza del provvedimento da parte dell’allontanato, la giurisprudenza ha interpretato la norma nel senso di prevedere direttamente l’eventuale intervento della forza pubblica e dell’ufficiale sanitario per non mettere a repentaglio la tutela della vittima nelle more dell’esecuzione del provvedimento. Così, per esempio, presso il Tribunale di Brescia spesso, al fine di evitare situazioni che potrebbero creare grave disagio alla vittima o annullare l’effetto dell’ordine di protezione, si dispone che l’ordine di protezione venga notificato dalla parte che lo ha richiesto ma tramite la polizia [continua ..]
Sebbene i provvedimenti sin qui esaminati (pur essendo analoghi a quelli previsti in sede penale) abbiano natura civilistica, la sanzione prevista per la loro inosservanza è, come già accennato, di natura penalistica. L’inosservanza degli ordini di protezione è sanzionata penalmente: l’art. 6, l. n. 154/2001 stabilisce infatti che «chiunque elude l’ordine di protezione previsto dall’art. 342 ter del Codice civile, ovvero un provvedimento di eguale contenuto assunto nel procedimento di separazione personale dei coniugi o nel procedimento di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio è punito con la pena stabilita dall’articolo 388, primo comma, del Codice penale. Si applica altresì l’ultimo comma del medesimo articolo 388 del Codice penale». Dunque, si applica la pena prevista per la mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, vale a dire la reclusione fino a tre anni o la multa da € 103,00 ad € 1.032,00 con la particolarità della necessaria querela della persona offesa. Il richiamo alla parte meramente sanzionatoria dell’art. 388 c.p. permette di escludere la necessità del dolo specifico, e non è nemmeno necessaria una condotta subdola, essendo sufficiente la semplice mancata attuazione dell’ordine del giudice. Si discute se la sanzione penale si riferisca ad ogni comportamento contrario alle prescrizioni del giudice o soltanto a quelle finalizzate alla protezione dell’integrità fisica o morale ovvero alla libertà del soggetto protetto. Sebbene, infatti, la lettera della legge e l’interpretazione estensiva del concetto di elusione prevalentemente accolta dalla giurisprudenza possono far optare per la rilevanza penale di ogni condotta – attiva od omissiva contraria alle prescrizioni dell’ordine di protezione [134], sembra opportuno, in ossequio al canone della extrema ratio, delimitare i confini della fattispecie. In quest’operazione un ausilio fondamentale è offerto dalla corretta individuazione del bene giuridico tutelato il quale può validamente fungere da limite ad un’eccessiva dilatazione dell’ambito dei comportamenti elusivi penalmente rilevante consentendo all’interprete di operare una selezione fra le violazioni delle differenti prescrizioni impartite dal giudice. Se, [continua ..]
L’art. 736 bis c.p.c., introdotto nel codice di procedura civile contestualmente all’introduzione, nel codice civile, degli artt. 342 bis e 342 ter c.c., prevede uno specifico procedimento perl’adozione degli ordini di protezione, che li farebbe rientrare nell’ambito, secondo alcuni, della tutela cautelare, secondo altri, dell’inibitoria. A queste opzioni si aggiunge poi quella proposta da chi, oltre a ravvisare elementi in comune con la tutela cautelare, ha sottolineato anche gli elementi in comune con i procedimenti di volontaria giurisdizione. Vediamo, innanzitutto, di esaminare le caratteristiche del procedimento ex art. 736 bis c.p.c., per poi addentrarci in ulteriori considerazioni sull’alternativa fra la natura cautelare e quella inibitoria.
La competenza è del tribunale del luogo di residenza o domicilio della vittima (art. 736 bis, 1° comma, c.p.c.): competenza territoriale inderogabile ex art. 28 c.p.c. Con tale previsione il legislatore intende far sì che qualora la vittima si sia allontanata, magari proprio a causa degli abusi, dalla casa familiare, non abbia comunque difficoltà a proporre il ricorso, potendo rivolgersi, appunto, anche al tribunale del luogo di domicilio. Il tribunale sarà quello ordinario anche per gli ordini di protezione emessi a tutela dei minori, e questo per non separare la loro posizione da quella degli adulti, in modo da permettere al giudice di valutare tutte le relazioni intersoggettive su cui gli abusi influiscono. Il tribunale decide in composizione monocratica (art. 736 bis, 1° comma, c.p.c.), e ciò per assicurare quella celerità nelle decisioni necessaria per adottare provvedimenti come quelli in esame. Tuttavia, è prevista l’applicabilità, in via integrativa e in quanto compatibili (art. 736 bis, 7° comma, c.p.c.), degli artt. 737 ss. c.p.c., ossia quelli riguardanti i procedimenti in camera di consiglio. Sarà poi il presidente del tribunale ad indicare il giudice persona fisica concretamente chiamato a decidere. Il procedimento rientra fra quelli che possono essere trattati anche durante il periodo di sospensione feriale (art. 92, 1° comma, l. ord. giud., come modificato dall’art. 4, l. n. 154/2000).
L’art. 737 c.p.c., richiamato dall’art. 736 bis, 7° comma, c.p.c., prevede che l’istanza debba essere formulata per iscritto con ricorso. Inoltre, per favorire la vittima degli abusi, è prevista la non obbligatorietà della difesa tecnica. Ma c’è un limite alla non obbligatorietà della difesa tecnica? Secondo una parte della dottrina l’estensione del principio di non obbligatorietà della difesa tecnica alle diverse attività processuali necessarie per l’accertamento dei fatti potrebbe ritorcersi a sfavore della vittima, normalmente priva di nozioni tecniche, oltre che emotivamente troppo coinvolta per poter affrontare la situazione. A favore della stessa vittima, dunque, secondo la suddetta dottrina, sembrerebbe opportuno limitare la non obbligatorietà della difesa tecnica alla sola presentazione dell’istanza, unico atto esplicitamente ricordato dall’art. 736 bis, 1° comma, come effettuabile dalla parte personalmente, ripristinando poi la regola generale dell’art. 82, 3° comma, c.p.c. (ossia, l’obbligatorietà della difesa tecnica) per tutti gli atti successivi. Ma in merito la suddetta distinzione non pare, però, condivisibile sol che si consideri che laddove il legislatore ha previsto la possibilità di presentare un ricorso alla parte personalmente si è sempre ritenuto possibile la difesa personale della parte in tutta la procedura: solo nel caso di amministrazione di sostegno – ed eccezionalmente – il supremo collegio ha previsto la possibilità della necessità dell’intervento di un difensore laddove si vadano ad incidere diritti fondamentali (cfr. Cass. 12 giugno 2006, n. 13584). Se ad essere legittimata attivamente è la vittima degli abusi (o il suo avvocato, o anche il suo rappresentante «secondo le norme che regolano la [sua] capacità», art. 75, 2° comma, c.p.c.), i familiari, terzi rispetto a fatti specifici, possono spiegare intervento adesivo dipendente, ex art. 105, 2° comma, c.p.c. Per quanto riguarda il Pubblico Ministero, non ne è previsto esplicitamente l’intervento obbligatorio. La dottrina è così divisa tra chi ritiene che egli possa intervenire solo ex art. 70, 3° comma, c.p.c. e chi, invece, ritiene che si [continua ..]
L’atto introduttivo è costituito da un ricorso al presidente del tribunale, che conterrà gli elementi richiesti dall’art. 125 c.p.c., e in particolare gli ordini di protezione, patrimoniali o personali, di cui si chiede l’emissione, e i fatti e gli elementi di diritto che ne costituiscono le ragioni, con le relative conclusioni. La fase successiva del procedimento (che avrà luogo davanti al giudice indicato dal presidente del tribunale) potrà poi svolgersi: 1) in contraddittorio fra le parti; 2) inaudita altera parte, in caso di urgenza. Nel primo caso, «il giudice, sentite le parti, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione necessari, disponendo, ove occorra, anche per mezzo della polizia tributaria, indagini sui redditi, sul tenore di vita e sul patrimonio personale e comune delle parti, e provvede con decreto motivato immediatamente esecutivo» (art. 736 bis, 2° comma). Dunque, il giudice, dopo il deposito del ricorso, deve fissare l’udienza di comparizione delle parti e il termine per la notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza a cura del ricorrente. Le parti devono comparire personalmente, e non è previsto un tentativo di conciliazione. Il giudice avrà, quindi, pur nel rispetto del principio del contraddittorio, ampia libertà nella ricerca delle prove, che potranno riguardare non solo i redditi, ma anche il tenore di vita e il patrimonio delle parti, eventualmente con l’ausilio della polizia tributaria e richiedendo informative a soggetti privati [136]. Il contraddittorio sarà invece instaurato solo successivamente nelle situazioni di urgenza. Qui, infatti, il giudice deciderà in merito all’adozione delle misura o immediatamente, al deposito dell’istanza, o assunte sommarie informazioni, fissando contestualmente l’udienza di comparizione delle parti, comunque entro un termine non superiore a quindici giorni, e lasciando non più di otto giorni alla vittima per la notificazione del ricorso e del decreto all’aggressore. All’udienza, poi, il giudice confermerà, modificherà o revocherà gli ordini (art. 736 bis, 3° comma, c.p.c.). Ma quali sono le situazioni di urgenza che giustificheranno l’emissione di un provvedimento inaudita altera parte? Si tratterà di quelle [continua ..]