Articolo tratto dalla Relazione tenuta al Convegno organizzato dall’AIAF Lazio, “L’impresa familiare e i Patti di Famiglia: quando la famiglia diventa impresa”, Roma, 24 giugno 2014.
1. Introduzione - 2. Ambito di applicazione della disciplina del "patto" - 3. Superamento dei tradizionali criteri della collazione ereditaria
Presupposto per l’applicazione delle regole del “patto di famiglia” è il trasferimento di una azienda o di una partecipazione sociale ai discendenti. La specificità delle esigenze della successione nella titolarità diretta o mediata di attività produttive è stata del resto, sin dalle origini dell’iter legislativo, l’argomento principale per giustificare quella che appariva quale “deroga” al divieto di patti successori. Ed è appena il caso di notare che questa connotazione derogatoria, da norma eccezionale, ha condizionato pesantemente l’interpretazione e limitato fortemente, di fatto, l’applicazione della disciplina, circondata da un alone di diffidenza.
Sebbene oggi possa dirsi superato tale pregiudizio, l’applicazione della disciplina del “patto” resta, testualmente, condizionata al ricorrere di un trasferimento di azienda o partecipazione sociale; resta peraltro da definire quale sia il peso e la portata di questa connotazione qualitativa dell’istituto. Decettiva è peraltro la prospettazione del “patto” come negozio traslativo di azienda o di quote: poiché il trasferimento è causalmente – tra le parti – una donazione, mentre il “patto”, cui partecipano gli altri legittimari, accede all’atto traslativo con l’effetto di fissare definitivamente, in vista della futura successione, il valore dell’azienda o delle partecipazioni assegnate al beneficiario. È interessante notare che tale effetto – di cristallizzare, ai fini della successione, il valore attribuito in atto a quanto assegnato – si estende anche ai beni estranei all’attività di impresa che vengano attribuiti, con lo stesso atto o con atto successivo, agli altri discendenti; e si pensi, in particolare, alla donazione di immobili. Sicché si apprezza la portata innovativa dell’istituto, che consente di superare l’evidente disparità nella valutazione dei diversi cespiti oggetto di donazione in vita, ai sensi degli artt. 746-751 c.c. Tuttavia l’esigenza di fissare una valutazione univoca di quanto attribuito in vita è evidentemente più forte quando si tratta di complessi aziendali (o di quote societarie), vista l’incongruenza insita nell’assumere per questi beni il valore al momento dell’apertura della successione. Diversamente dai cespiti – mobili o immobili – della statica economia agraria, il cui valore può anche variare nel tempo in funzione di vicende contingenti, ma la cui individualità resta determinata, il complesso aziendale è destinato a mutare sul piano qualitativo e quantitativo in conseguenza delle vicende della gestione dell’impresa. Né potrebbe sensatamente tentarsi un adattamento delle norme sui miglioramenti e deterioramenti dell’immobile donato (artt. 748-749 c.c.) alle vicende del complesso produttivo, neppure ricorrendo in via ausiliaria alle disposizioni in materia di usufrutto di azienda (art. 2561 c.c.).