1. L'impresa familiare coltivatrice: peculiarità nei rapporti esterni - 2. Cenni sui rapporti interni tra i membri dell’impresa familiare coltivatrice - 3. Considerazioni conclusive - NOTE
Le imprese che si occupano di agricoltura in Italia sono circa 1,6 milioni. I dati riportati dal 6° Censimento Generale dell’Agricoltura, di recente resi noti dall’ISTAT [1], evidenziano un importante cambiamento nel mondo agricolo in atto da poco più di dieci anni. Si tratta della sempre maggiore presenza di aziende agricole condotte in forma societaria, pur sempre fondate su attività di tipo familiare (quasi al 96%), a fronte della tradizionale gestione individuale [2]. Premesso questo dato che registra una situazione in costante evoluzione del settore, l’impresa familiare coltivatrice, quale istituto giuridico distinto dalla impresa familiare ex art. 230 bis c.c., è ancora utilizzata e ricorrente in diverse realtà produttive italiane. L’impresa familiare, pur nel silenzio del legislatore del ’75, è ormai considerata da dottrina e giurisprudenza un’impresa individuale, con un solo titolare che agisce sul piano dei rapporti esterni, assumendo il rischio dell’attività di impresa. Intorno alla figura dell’imprenditore, vengono individuati i diritti dei familiari lavoratori la cui cogestione dell’impresa, tuttavia è fortemente limitata. Diversamente, l’impresa familiare coltivatrice è una peculiare figura giuridica disciplinata dal combinato disposto dell’art. 230 bis c.c., cui si deve far riferimento per ciò che riguarda i rapporti interni dei componenti dell’impresa, e l’art. 48 della l. n. 203/1982 [3], espressamente destinato a disciplinare l’impresa familiare agricola nei rapporti esterni, purché non in contrasto con la normativa generale. L’art. 6 della l. n. 203/1982 chiarisce che: «Ai fini della presente legge sono affittuari coltivatori diretti coloro che coltivano il fondo con il lavoro proprio e della propria famiglia, sempreché tale forza lavorativa costituisca almeno un terzo di quella occorrente per le normali necessità di coltivazione del fondo, tenuto conto, agli effetti del computo delle giornate necessarie per la coltivazione del fondo stesso, anche dell’impiego delle macchine agricole. Il lavoro della donna è considerato equivalente a quello dell’uomo»; l’art. 7 della medesima legge prevede che: «Sono equiparati ai coltivatori diretti, [continua ..]
La costituzione di un’impresa familiare coltivatrice, al pari dell’impresa familiare ex art. 230 bis c.c., trova la sua fonte nella previsione di legge e non richiede particolari formalità. Si tratta di una mera situazione di fatto che trova applicazione quando vi sia prestazione continuativa di lavoro nell’impresa o nella famiglia da parte dei familiari, coniuge, parenti entro il terzo grado, affini entro il secondo, ed ha carattere residuale. In altre parole, l’impresa familiare coltivatrice sussiste soltanto quando i familiari non abbiano inteso dare alla loro attività una diversa veste giuridica (società di persone, società di capitali, rapporto di lavoro subordinato, ecc.). Più in generale, come poc’anzi affermato, per ciò che concerne i rapporti interni dei partecipanti all’impresa familiare coltivatrice, potrà farsi riferimento all’istituto dell’impresa familiare ex art. 230 bis c.c. In passato, la Corte di Cassazione aveva affermato che perché potesse sussistere una impresa familiare, dunque anche coltivatrice, sarebbe stato sufficiente che uno dei coniugi avesse adempiuto con il proprio lavoro ai doveri previsti dagli artt. 143 e 147 c.c.; successivamente, mutando il proprio orientamento, la Suprema Corteha invece affermato la necessarietà da parte del coniuge di “collaborazione fattiva”, seppur limitata all’interno dell’attività d’impresa. La Suprema Corte ha altresì valorizzato il lavoro domestico svolto dal coniuge nell’ambito di una impresa familiare, tuttavia evidenziando che: «Ai sensi dell’art. 230 bis c.c., la concreta collaborazione del partecipante all’impresa familiare – istituto la cui costituzione non può essere automatica, senza alcuna volontà degli interessati, ma al contrario, quando non avvenga mediante atto negoziale, deve sempre risultare da fatti concludenti, e cioè da fatti volontari dai quali si possa desumere l’esistenza della fattispecie, ben potendo l’imprenditore rifiutare la partecipazione del familiare all’impresa, opponendosi all’esercizio di attività lavorativa nell’ambito di essa –, se, in mancanza di accordi convenzionali, non può ridursi, nel caso del coniuge, [continua ..]
La l. n. 203/1982 disciplina essenzialmente i contratti agrari non già tutte quelle altre fattispecie che il legislatore nazionale ed europeo negli anni ha individuato in maniera specifica con diversi interventi normativi nel settore agricolo a definire la figura giuridica del contadino [8]. Da ciò discende che la disciplina prevista dalla l. n. 203/1982 abbia un ambito di applicazione molto ristretto e quindi quando si parla di impresa familiare coltivatrice in senso lato occorre comunque fare riferimento sempre all’art. 230 bis c.c. quale norma a carattere generale, e ciò, ovviamente, solo qualora i soggetti coinvolti non abbiano optato per un diverso e specifico assetto societario. Non si dimentichi, infine, la rilevanza degli “usi”, giacché l’art. 230 bis c.c. stabilisce che le comunioni tacite familiari nell’esercizio dell’agricoltura sono regolate dagli usi che non contrastino con le precedenti norme [9].