Dal punto di vista strutturale il processo di separazione e divorzio è connotato da profili di indubbia specialità, particolarmente a motivo della sua bipartita scansione. La prima fase avanti al Presidente del Tribunale assolve a una duplice fondamentale funzione, quella di fungere da preliminare “filtro” per verificare il possibile reperimento di un’intesa e, in mancanza di questa, accordare una tutela immediata ai diritti e alle posizioni soggettive delle parti messe in pericolo o lese dal conflitto. Negli ultimi tempi, tuttavia, in alcuni campi e in relazione a profili specifici si assiste a un intervento da parte del presidente non sempre perfettamente in linea con il suo ambito di poteri e la sua funzione istituzionale. L’indagine intende esaminare le diverse aree in cui con maggiore frequenza si registrano disarticolazioni e aporie, evidenziando i necessari correttivi attraverso i quali restituire all’udienza e all’ordinanza presidenziale il loro giusto ruolo nella dimensione del sistema.
Separation and divorce process have a special structure, because of their biphasic articulation. The first part in front of the court president has two fundamental functions: verify if a reconciliation is possible and, if not, adopt an immediate protection to rights and positions of the parts involved in the familiar conflict. It is however lately not so rare that, in certain areas and respects, presidents operate departing from their traditional powers and institutional function. The article aims to examine different areas where disarticulation and uncertainty have more frequently occurred, highlighting the necessary corrections in order to return to presidential hearings and orders their proper role in family law system.
1. La fase presidenziale quale elemento connotante la specialità del processo di separazione e divorzio - 2. I provvedimenti presidenziali e il loro inquadramento - 3. Le dinamiche processuali (sulla comparizione personale e sull'audizione) - 4. Sulla dibattuta natura dell'ordinanza presidenziale - 5. I mutamenti intervenuti nel sistema - 6. Il processo di separazione: inammissibilità di anticipazioni relative all'addebito - 7. I provvedimenti sull'affidamento e sul regime di frequentazione dei figli minori - 8. Le "interferenze" della mediazione familiare: quando disponibilità al confronto e necessità di provvedere non si rivelano consonanti - 9. La tutela economica dei figli minori: verso un'ingiusta protezione del genitore più forte economicamente - 10. Il processo di divorzio: inammissibilità di un'anticipazione dei nuovi criteri sull'assegno - 11. Per un recupero dei caratteri dell'ordinanza presidenziale: l'immediatezza e la temporaneità - 12. (Segue). La sommarietà - 13. L'officiosità - 14. L'esecutorietà - 15. Conclusioni - NOTE
Dal punto di vista sistematico il processo di separazione e divorzio [1] deve ricondursi all’alveo dei procedimenti speciali (intendendosi con tale locuzione l’insieme di procedimenti che si differenziano, in modo più o meno marcato, dall’archetipo generale del rito di cognizione ordinario), e negli stessi termini è inquadrato dalle fonti normative, pur ancor oggi inopportunamente suddivise tra il quarto libro del codice di rito e la legge sul divorzio [2]. Il carattere di specialità nell’estrinsecazione formale dell’iter iudicii risponde del resto all’indubbia peculiarità già sussistente a livello delle situazioni sostanziali incise (status, diritti fondamentali e personalissimi delle parti, diritti dei figli minori della coppia), che formano il thema decidendum del processo e che quest’ultimo ha il compito di tutelare. A ben vedere, peraltro, se si prescinde dalla differente forma prescelta dal legislatore per l’atto introduttivo (ricorso anziché atto di citazione), la specialità del rito si concentra fondamentalmente nella sua costruzione bipartita e in particolare nella presenza di un apposito segmento processuale, la fase presidenziale, dotato di specifica funzione, natura e struttura [3]. In questa prospettiva, la specialità non involge quindi l’intero rito, ma è limitata proprio alla presenza di una previa, caratteristica e ulteriore (rispetto al processo ordinario) fase – quella presidenziale –, che risponde a una precisa logica e racchiude in sé una serie di prerogative processuali, per poi incanalare il giudizio nei tradizionali binari del processo ordinario a cognizione piena. Invero, conclusa la fase presidenziale e una volta che il processo viene assegnato al giudice istruttore, le parti si presentano davanti a questo già costituite, negli specifici termini indicati nell’ordinanza presidenziale e «all’udienza davanti al giudice istruttore si applicano le disposizioni di cui agli articoli 180 e 183, commi primo, secondo, e dal quarto al decimo. Si applica altresì l’articolo 184» [4]. Il processo, salve ancora alcune regole formali ad hoc sempre correlate alla particolarità delle situazioni soggettive incise [5], riacquista così gli attributi propri del modello ordinario. Per [continua ..]
La scomposizione del processo sopra accennata e le innegabili peculiarità della fase presidenziale hanno indotto buona parte della dottrina ad assegnare alla stessa natura e caratteri autonomi. In effetti, nell’impianto originario del codice, la fase presidenziale del giudizio di separazione appariva connotata da profili di volontaria giurisdizione più ancora che contenziosi. L’art. 707 c.p.c. stabiliva che i coniugi dovessero «comparire personalmente davanti al presidente», addirittura «senza assistenza di difensore» e l’art. 708 c.p.c. disponeva che il presidente dovesse sentire personalmente i coniugi «prima separatamente e poi congiuntamente» per tentare la conciliazione. Il legislatore del 1940 aveva quindi immaginato l’iniziale contatto tra le parti e il Presidente del Tribunale come personalissimo e non surrogabile, in una prospettiva molto diversa dal tradizionale modello processuale (che nei giudizi avanti al tribunale impone ex art. 82 c.p.c. la necessaria presenza del difensore). Questi specifici tratti, calati all’interno di un processo che pure rimaneva nella sua sostanza e nella dimensione generale contenzioso, impedivano di individuare con assoluta certezza un’unica natura per l’udienza presidenziale, inducendo addirittura autorevole dottrina ad affermare la sostanziale inutilità di qualsiasi tentativo di inquadramento sistematico [6]. Le difficoltà di una precisa lettura non sono venute meno nemmeno con l’evoluzione intercorsa nel sistema delle fonti. Per effetto di un intervento della Corte costituzionale nel 1971 [7] l’art. 707 c.p.c. fu invero giudicato illegittimo, e ciò proprio nella parte in cui inibiva «ai coniugi comparsi personalmente davanti al Presidente del Tribunale, e in caso di mancata conciliazione» di essere assistiti dai rispettivi difensori. Medio tempore era da poco stato introdotto nell’ordinamento il divorzio, e per quanto la prima udienza fosse stata disciplinata anche in quella sede in modo analogo [8], nessuno dubitava della differenza tra la situazione dei coniugi che si presentano avanti al giudice del divorzio e quella anteriore alla separazione, in cui il rapporto coniugale è ancora a tutti gli effetti pieno e vincolante e tra le parti intercorrono reciprocamente i diritti e gli obblighi propri [continua ..]
Malgrado i cambiamenti sopra riportati, tuttavia, l’udienza presidenziale resta anche nel sistema attuale prima di tutto deputata alla comparizione personale dei coniugi e alla relativa audizione. A questo proposito, la scelta delle espressioni contenute negli artt. 707 c.p.c. e 4 l. divorzio e il riferimento prima di tutto ai “coniugi” (anziché alle “parti”) non è casuale, bensì tesa a delineare un sistema scomposto ma dotato di una complessiva coerenza. Con tale terminologia si è invero inteso rafforzare l’idea che, malgrado la natura del processo, nel suo complesso contenziosa, possa (e debba) tuttora esservi all’interno dell’udienza presidenziale uno spatium temporis dedicato, finalizzato a un intervento del giudice con preminente funzione di componimento nella crisi familiare. È al riguardo sintomatico, infatti, che l’art. 708, 1° comma, c.p.c. e l’art. 4, 7° comma, l. divorzio individuino il primo nucleo dell’udienza nell’audizione dei (soli) coniugi, mentre per l’art. 708, 3° comma, c.p.c. e l’art. 4, 8° comma, l. divorzio soltanto laddove la conciliazione non riesca il presidente sia poi chiamato a emanare i provvedimenti provvisori dopo avere sentito i coniugi «e i rispettivi difensori». Durante l’udienza presidenziale, quindi, o quanto meno durante una sua prima (sotto)fase, i protagonisti della scena rimangono prima di tutto i coniugi, e in tale loro specifica veste devono essere ascoltati dal presidente. Anche per questo motivo, tra l’altro, malgrado la previsione apparentemente indistinta di un’assistenza obbligatoria, pare più conforme al sistema l’interpretazione già individuata (pur in altro contesto normativo) dalla Consulta, per cui la presenza del difensore non deve ritenersi tassativa e indeclinabile in ogni singolo momento dell’udienza, ma mira a garantire il diritto di difesa della parte nel momento in cui il tentativo di conciliazione non abbia sortito esito e il presidente sia a quel punto chiamato a emanare i provvedimenti di sua competenza [13]. Da questo punto di vista, pertanto, è fondamentale che il presidente continui a sentire i coniugi, non soltanto nella separazione ma altresì nel divorzio, dapprima separatamente e poi congiuntamente. Ritengo pertanto non corretta la gestione [continua ..]
Anche (e proprio) a motivo delle specifiche caratteristiche già tratteggiate, la dottrina si è a lungo interrogata in merito alla natura della fase presidenziale, fornendo soluzioni interpretative assai diversificate. Un primo orientamento (accolto soprattutto in passato) è stato nel segno di una decisa differenziazione rispetto al successivo corso del giudizio, con relativo inquadramento nell’ambito della volontaria giurisdizione [19]. Una seconda corrente è stata invece quella volta a inquadrare la fase presidenziale nell’ambito della tutela cautelare [20], sottolineando in particolare la sua funzione di intervento giurisdizionale in via immediata e provvisoria. Nel tempo, tuttavia, la soluzione maggiormente condivisa si è assestata nel senso di attribuire all’udienza presidenziale natura sommaria, interinale [21] o come ormai più sovente e tecnicamente si usa dire, anticipatoria [22]. Tutti questi tentativi, al di là delle esigenze di inquadramento sistematico, hanno in particolare cercato di comprendere quale fosse la disciplina dell’ordinanza presidenziale in relazione al suo regime di stabilità e all’individuazione di un possibile controllo. Così, ad esempio, malgrado l’approfondita analisi e la determinazione con cui era stata (da un’ampia corrente) sostenuta la natura cautelare dell’ordinanza presidenziale, né la dottrina dominante [23], né la giurisprudenza [24] (che pure ha talvolta fatto propria la tesi sopra illustrata [25]), hanno, per plurime ragioni, ritenuto applicabile per le ipotesi di invalidità dei provvedimenti di cui si tratta, la disciplina prevista dal rito cautelare uniforme, e in particolare l’art. 669 terdeciesc.p.c. [26]. In ogni caso, l’attribuzione di una determinata natura all’udienza (e all’ordinanza) presidenziale poteva determinare ricadute anche sulla ricostruzione dell’intera disciplina del giudizio, poiché ad esempio per i sostenitori del sopra ricordato “rito ambrosiano” il giudizio doveva considerarsi unitario (per funzione e struttura), integralmente contenzioso e addirittura assistito già a far tempo dall’udienza presidenziale dalla scansione delle preclusioni propria del rito ordinario. La riforma del 2005 ha modificato l’impianto di legge, da un lato [continua ..]
Alla luce delle riforme che nel tempo si sono susseguite, ma soprattutto anche del modificato assetto sociale e culturale, non vi è dubbio che nel sistema attuale l’impostazione in origine immaginata dal legislatore per l’udienza presidenziale debba essere ripensata. Rimane ad esempio oggi illusorio immaginare che l’udienza presidenziale sia in primis finalizzata alla ricerca di una riconciliazione in senso stretto, intesa come ripristino della communio di vita tra i coniugi. L’espletamento del tentativo da parte del presidente ha in questo senso piuttosto la fisiologica finalità di reperire una composizione giudiziale dei contrapposti interessi e porre in essere un auspicato mutamento del rito [37]. Da questo punto di vista vi è stata non già una vera e propria perdita di identità, ma piuttosto un adeguamento della fase presidenziale alle mutate concezioni della società e del costume. Sono ormai rarissimi i casi in cui il presidente tenta con convinzione di riconciliare i coniugi (magari anche disponendo lunghi rinvii con auspicii alle parti di un ripensamento) e detto tentativo – oltre che destinato nella quasi totalità dei casi all’insuccesso [38]– finisce per essere anche mal visto dalle parti, che avvertono tale impegno come una eteronoma forzatura, invasiva e imbarazzante. Ciò non toglie che il tentativo di conciliazione mantiene comunque in questa sede una specifica connotazione e funzione, non integralmente equiparabile a quella della conciliazione giudiziale su diritti disponibili (prevista ad es. dagli artt. 185, 185 bis e 420 c.p.c.) [39], atteso che gli aspetti che il giudice è chiamato ad approfondire riguardano relazioni familiari e personalissime delle parti, nonché i diritti e gli interessi degli eventuali figli minori, che hanno anche valenza metaindividuale.
Ulteriori sono invece i profili per i quali si può purtroppo discorrere di perdita di identità dei provvedimenti presidenziali. Il primo tra questi riguarda i poteri in concreto esercitati dal presidente e le tipologie di indagine che lo stesso è chiamato a compiere. Ed invero, nell’impianto previsto dal sistema vi sono aspetti del giudizio sui quali il presidente non ha alcun potere di esprimersi e che pertanto devono rimanere estranei dall’ambito dei provvedimenti provvisori. Tra questi, particolare importanza riveste il caso della statuizione relativa all’addebito. L’art. 156 c.c. prevede infatti che «il giudice, pronunziando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri». Se dunque è scontato che il presidente non possa addebitare una separazione che non sia ancora stata pronunciata, più delicato è il profilo della possibilità per lo stesso di inferire dagli elementi istruttori offerti dalle parti pretesi elementi per negare, già in sede di regolamentazione interinale dei rapporti tra le parti, il diritto del coniuge più debole al mantenimento da parte dell’altro [40]. Si assiste al riguardo sempre più di frequente a casi in cui il presidente, in forza della documentazione allegata negli atti introduttivi (relazioni investigative, fotografie, stralci di conversazioni e messaggi telefonici, dati inseriti sui profili dei social network), finisce per escludere il diritto a un assegno anche provvisorio di mantenimento sulla scorta di un preteso fumus boni iuris di una futura (ma in quel momento solo eventuale!) pronuncia di addebito. Tali prassi sono a mio avviso del tutto illegittime. Numerosi sono gli elementi che militano a sostegno di un’interpretazione garantista (e come tale restrittiva), per la quale un’eventuale esclusione del contributo al mantenimento per il coniuge più debole può conseguire soltanto dall’intervenuto giudizio a cognizione piena sulla domanda di addebito da parte del tribunale. Depone in primo luogo in questo senso un argomento letterale molto forte. L’art. 156 c.c., appena ricordato, prevede che il giudizio sull’eventuale esclusione [continua ..]
Ulteriore ambito nel quale nella prassi si registrano note dissonanti (e talvolta purtroppo confusive) è quello dei provvedimenti di natura personale relativi alla prole minore. Come noto, a seguito della l. n. 54/2006, l’affidamento condiviso è divenuto la soluzione generale, alla quale ricorrere in assenza di particolari ragioni legittimanti diverse soluzioni. Anche la prassi si è decisamente (e correttamente) attestata in questo senso [43]. L’affidamento non equivale peraltro all’individuazione del luogo dove a seguito della crisi tra i genitori i minori devono continuare a vivere; e sotto questo profilo, benché il principio della c.d. maternal preference venga nella sua pretesa apodittica valenza da sempre maggiori parti posto in discussione, in favore di un opposto principio di gender neutral child custody [44], il collocamento prevalente presso la madre continua a rimanere la formula maggiormente utilizzata in sede giudiziale [45]. Come indiretto corollario, ancora oggi molti padri finiscono per assumere un atteggiamento “rinunciatario”, accontentandosi di spazi anche ridotti (che non sempre assicurano una piena continuità nel rapporto), lasciando alle madri il collocamento prevalente, con i correlati diritti e doveri. In altri termini, pur essendo convinti del loro buon diritto a esercitare pienamente (e pariteticamente) la genitorialità, alcuni padri affrontano la separazione già preconizzando che il giudice finirà necessariamente per decidere in favore della madre, la quale godrebbe tuttora di un favor e di una posizione di preferenza, ancorché come noto nulla dica la legge in proposito e anzi i padri genuinamente interessati a mantenere un rapporto costante e quotidiano con i figli siano nella prassi del processo di separazione e divorzio sempre più considerati e agevolati. Ciò anche e soprattutto nella fase presidenziale, che rimane sovente l’unico momento in cui ha luogo un vero e proprio contatto diretto tra le parti e l’organo giudicante. Di converso, vi sono purtroppo anche sempre più frequenti casi in cui i padri – pur in simmetrica assenza di qualsivoglia indicazione legislativa sul punto – inferiscono dalla regola dell’affidamento condiviso una parallela irragionevole pretesa che la collocazione sia suddivisa in parti esattamente uguali, con [continua ..]
In questo stesso contesto si verificano anche situazioni in cui, di fronte al dissidio genitoriale, i presidenti ritengono di non avere gli strumenti per decidere autoritativamente tra le contrapposte pretese, e, invece che disporre un approfondimento per meglio comprendere le dinamiche relazionali della famiglia, le risorse genitoriali di entrambi e la soluzione migliore per i minori, sollecitano ripetutamente le parti a intraprendere un percorso di mediazione familiare. Anche il legislatore, nell’art. 337 octies, 2° comma, c.c., ha previsto che «qualora ne ravvisi l’opportunità, il giudice, sentite le parti e ottenuto il loro consenso, può rinviare l’adozione dei provvedimenti di cui all’articolo 337 ter per consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti, tentino una mediazione per raggiungere un accordo, con particolare riferimento alla tutela dell’interesse morale e materiale dei figli». Come si può notare, tuttavia, la previsione legislativa è limitata ai casi in cui sul percorso di mediazione vi sia l’accordo delle parti, mentre si va sempre più spesso diffondendo la prassi di invitare le parti anche autoritativamente a intraprendere tali percorsi. Tale modus operandi da parte del presidente può considerarsi corretto unicamente ragionando in termini astratti, sulla complessità dei rapporti familiari e sulla correlata solo parziale idoneità del processo a risolvere le situazioni di crisi. In questa prospettiva, tenuto conto che il dissidio e le rivendicazioni reciproche, anche per come spesso trasfuse negli atti di causa e nell’animosità del giudizio, non possono che produrre negative ripercussioni sulla crescita dei figli minori, la possibilità che la mediazione offre di voler seriamente rivedere le rispettive posizioni, ponendo in primo piano il preminente interesse dei figli può effettivamente risultare di grande giovamento per il futuro della famiglia, anche separata. A questo fine possono risultare proficui paralleli percorsi di sostegno alla genitorialità, oltre che percorsi personali di supporto terapeutico anche individuale, e ciò malgrado la Cassazione abbia espresso il suo dissenso dall’irrogazione di specifiche prescrizioni giudiziarie a tale proposito [46]. La prassi di sollecitare il percorso di mediazione può [continua ..]
Un ulteriore campo nel quale si può assistere a distonie rispetto all’assetto che il processo di separazione e divorzio dovrebbe assicurare alla famiglia in crisi, a motivo di distorsioni della funzione dell’ordinanza presidenziale, è quello dei provvedimenti di natura economica. Invero, se in un passato ormai non più così recente non era infrequente assistere ad assegni di mantenimento per il coniuge e per i figli anche assai elevati, negli ultimi anni la prassi della giurisprudenza di merito è nel suo complesso sensibilmente mutata, in una direzione assai più prudenziale, quand’anche non oltre modo parca o addirittura apertamente restrittiva. Diversi e concorrenti sono stati i fattori che hanno contribuito a tale cambiamento: vi è stata in primo luogo un’evoluzione nella percezione dei rapporti della coppia a seguito della crisi familiare, nella sempre più accentuata presa di distanza da logiche di incondizionate rendite vitalizie, ingiustamente tutelanti quand’anche addirittura non parassitarie, nella rivalutazione della doverosa rilevanza di profili e valori quali quelli dell’indipendenza e dell’autonomia di ciascun coniuge per le scelte future di vita. Ma sicuramente ha contribuito in tal senso soprattutto un fattore oggettivo ed esterno, rappresentato dalla crisi che ha attraversato il nostro paese e più in generale il mondo intero. La difficoltà che ne è derivata ha portato a rivedere “al ribasso” molte delle certezze che in termini di tenore di vita e possibilità di spesa potevano considerarsi sino a quel momento acquisite. Questa situazione può di fatto provocare un doppio effetto distorsivo nei processi di separazione e divorzio. E così, per quanto riguarda le famiglie appartenenti a ceti meno agiati il rischio è che il provvedimento del presidente, per quanto contenuto, possa comunque trasformarsi in un onere spropositato per il coniuge o genitore ad esso tenuto. In questi casi, invero, già l’assegnazione a un genitore della casa coniugale (il più delle volte gravata da oneri di mutuo che potevano essere considerati sostenibili nell’economia di una famiglia unita ma che diventano già per lo stessi eccessivi nella logica della separazione) e il correlato necessario reperimento per l’altro genitore di un’ulteriore abitazione, [continua ..]
Ulteriore campo di incertezze recentemente venutosi a creare è quello relativo al tema dell’assegno provvisorio nel giudizio di divorzio. A far tempo dalla nota sentenza Cass. 10 maggio 2017, n. 11504 [47], invero, con la quale la Suprema Corte ha modificato la propria consolidata impostazione sull’assegno di divorzio, non pochi giudici hanno inteso applicare i nuovi criteri in modo rigoroso, pretendendo addirittura che già in sede di udienza presidenziale e sin dalle prime battute del processo di divorzio gli stessi possano valere per escludere in radice il riconoscimento di un assegno anche provvisorio a favore del coniuge più debole. E ciò, a volte, nonostante una situazione per cui la parte godeva sino a quel momento pacificamente e in modo “indisturbato” dell’assegno di separazione. Tale linea è stata portata avanti da alcuni giudici non soltanto “sensibilizzando” in sede di udienza la parte al recupero di una più completa autonomia e indipendenza economica, ma magari anche sottolineando dati di fatto non univoci o dirimenti estrapolati dagli atti introduttivi (quali la presenza di un’attività di lavoro part time ovvero precaria, il mancato reperimento di un posto di lavoro protratto nel tempo, la presenza di risparmi magari di modesta entità), al fine di inferire una pretesa sussistente o raggiunta condizione di indipendenza tale da escludere (in tesi) il diritto a un assegno di divorzio. Dette situazioni devono a mio avviso essere attentamente ponderate. Nulla autorizza invero il presidente a variare in prima udienza di divorzio la tipologia di cognizione che lo stesso è in tale sede chiamato a compiere. Lo status di divorziato si acquista soltanto con il passaggio in giudicato della relativa sentenza (sino a quel momento i coniugi, pur separati, restano tali), e comunque il contributo individuato in favore del coniuge debole può acquisire natura di assegno di divorzio unicamente dopo la sentenza di divorzio. È quindi consequenziale che il provvedimento presidenziale (quanto meno nei casi in cui il divorzio non sia su domanda congiunta e si prosegua pertanto giudizialmente), conservi natura e struttura di assegno di separazione fino al giudicato. In questa prospettiva, nella fase presidenziale – pur connotata da una funzione anticipatoria – il presidente non [continua ..]
Di fronte alle distonie che si sono evidenziate è necessario che l’ordinanza presidenziale recuperi i caratteri che le sono propri, per tornare ad adempiere correttamente alla sua funzione istituzionale. Da questo punto di vista un primo fondamentale connotato è quello dell’immediatezza. Il legislatore ha improntato la fase presidenziale a un regime temporale cadenzato in modo rigoroso, prescrivendo che una volta depositato in cancelleria il ricorso introduttivo, “nei cinque giorni successivi” il presidente è tenuto a fissare con ordinanza la data dell’udienza di comparazione dei coniugi avanti a sé; udienza che deve avere luogo entro novanta giorni dal deposito del ricorso (art. 706, 3° comma, c.p.c. e art. 4, 5° comma, l. divorzio). Pur consci dei carichi di ruolo dei tribunali, a volte particolarmente gravosi, tale termine, anche se meramente ordinatorio, dovrebbe essere per quanto possibile rispettato, mentre purtroppo a volte si assiste alla fissazione dell’udienza presidenziale anche a distanza di diversi mesi [55]. Questa dilatazione dei tempi è eccessiva e può rivelarsi altamente pregiudizievole soprattutto nel processo di separazione, in cui il presidente è chiamato a intervenire nel conflitto di regola più acceso (in quanto più recente) e in un contesto ancora non regimentato (anche sotto il profilo economico, per cui si registrano in questi intervalli temporali non infrequenti casi di palese violazione degli obblighi di assistenza familiare), per dettare la prima disciplina alla famiglia in crisi. Occorre quindi per quanto possibile rispettare l’esigenza di immediatezza, poiché la specialità della fase presidenziale non dovrebbe tollerare ritardi o anche soltanto appesantimenti in ragione di problemi organizzativi o differenti incombenze processuali [56]. Accanto all’immediatezza si pone anche la temporaneità. I provvedimenti presidenziali sono infatti per loro definizione non definitivi, essendo fisiologicamente destinati a essere assorbiti (in senso confermativo ma anche modificativo) dalla sentenza del tribunale [57]. Ma la loro temporaneità si disvela anche in itinere, tenuto conto della loro possibile modifica sia da parte della Corte d’Appello eventualmente investita in sede di reclamo, sia da parte del giudice istruttore. Su questo profilo si assiste nella [continua ..]
Se la peculiarità (id est, l’identità ed essenza) dell’udienza presidenziale consiste come appena detto nella celerità e immediatezza della pronuncia e nella sua correlata provvisorietà, è evidente che l’intervento del giudice non possa essere fondato sullo stesso grado di approfondimento che sarà proprio della sentenza definitiva, presupponendo una sommarietà di indagine e della relativa cognizione. In questo senso la fase presidenziale è il cuore del procedimento volto a por fine alla relazione matrimoniale e ne rappresenta l’elemento identificante e fondamentale. Tanto è vero che spesso il provvedimento provvisorio assunto dal presidente sulla base dei primi elementi raccolti rimane fermo o solo leggermente modificato per tutta la durata del processo, fino alla conclusione. Vero è che non di rado il provvedimento provvisorio ritarda a essere pronunciato perché il presidente non dispone dei necessari elementi – specie per quanto riguarda il miglior regime di affidamento e collocamento dei figli – dagli atti del giudizio e dalle dichiarazioni rese in udienza dai coniugi, per dettare le regole ritenute più eque, e questo può fare apparire inadeguato il suo intervento in quanto farebbe rimanere privo di regolamentazione per i coniugi e così “scoperto” un periodo più o meno lungo successivo all’autorizzazione a vivere separati. Ma è evidente che in tali casi immediatezza e sommarietà devono bilanciarsi e reperire un punto di equilibrio e la fase interlocutoria così avviata sarà esplicitamente o implicitamente confermativa di una situazione di fatto che il giudice avrà ragionevolmente ritenuto non oltre modo pregiudizievole e in grado di “reggere” inalterata ancora per qualche tempo, sino alla formazione di un adeguato (per quanto sommario) convincimento e delle correlate statuizioni.
Quanto alla disciplina dell’impulso e dell’iniziativa, il dettato normativo riporta in entrambe le norme di riferimento l’inciso “anche d’ufficio”, apparentemente in modo generale e senza veicolarlo a precisi segmenti del potere di intervento presidenziale. Ciò ha indotto alcuni Autori a sostenere che l’officium iudicis permeerebbe l’ordinanza nella sua integralità [59]. L’opinione più accreditata in dottrina e giurisprudenza individua, tuttavia, come di consueto, una precisa linea di demarcazione, attribuendo al presidente il potere di svincolarsi dai binari fissati dalle domande delle parti (e dal correlato rispetto del principio di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato) unicamente per quanto riguarda i provvedimenti funzionali alla tutela dei figli minori, la cui assunzione può (rectius, deve) avvenire unicamente sulla base delle loro esigenze morali e materiali. Questa prospettiva si rivela condivisibile nella misura in cui non si vedono ragioni per sottrarre la regolamentazione anche provvisoria dei rapporti inter partes ai canoni generali del processo. Possono quindi essere adottati ex officio unicamente i provvedimenti riguardanti l’affidamento, il collocamento, le modalità di frequentazione tra figli e genitori, il mantenimento della prole, l’assegnazione della casa coniugale in presenza di minori, e ciò in virtù degli interessi pubblicistici sottesi a tali estrinsecazioni della tutela giurisdizionale, rivolta a soddisfare esigenze e finalità sottratte all’iniziativa e alla disponibilità delle parti [60]. Rimane invece sempre necessaria (secondo il generale principio di cui all’art. 99 c.p.c.) l’istanza di parte per quanto attiene ai rapporti economico-patrimoniali tra i coniugi [61], per i quali assumono rilievo (e valore vincolante per il presidente) eventuali accordi anche parziali direttamente raggiunti tra le parti [62]. La giurisprudenza, dal canto suo, non sembra avere affrontato ex professo la questione, pronunciando un definito principio di diritto sul problema del reale significato dell’inciso contenuto nelle norme di riferimento per il quale il presidente è chiamato a emanare i provvedimenti di sua competenza “anche d’ufficio”; in proposito è stato tuttavia [continua ..]
Infine, tenuto conto della sopra individuata funzione di intervento sulle situazioni sostanziali di valenza fondamentale e primaria pregiudicate o messe in pericolo dal conflitto familiare, nonché del suo ruolo insopprimibile e infungibile nella complessiva dinamica del processo di primo e immediato baluardo per porre fine a tali situazioni antigiuridiche, l’ordinanza presidenziale deve essere assistita da una particolare forza e da un adeguato grado di cogenza, sub specie dell’esecutorietà. Quest’ultima deve – per quanto possibile – trovare espressione in relazione a tutti i contenuti dell’ordinanza [65]. In particolare, ciò è essenziale (e pacifico) per i provvedimenti stricto sensu economici, per i quali l’esecutorietà è normativamente prevista dall’art. 186 disp. att. c.p.c. (per la separazione) nonché, mediante rinvio a detta norma, dall’art. 4, 8° comma, l. divorzio (per il divorzio). In relazione ai provvedimenti di natura economica, poi, il legislatore ha stabilito anche un ulteriore potenziamento dell’ordinanza, mediante alcuni specifici mezzi di rafforzamento delle garanzie patrimoniali contemplati nell’art. 156 c.p.c. e 8 l. divorzio Si tratta come noto del sequestro e dell’ordine di pagamento a terzi, mentre per l’obbligo di prestare garanzia reale o personale, l’ordine di l’iscrizione di ipoteca giudiziale [66] e l’azione diretta esecutiva nel divorzio è necessario attendere la sentenza [67]. Tra i provvedimenti che hanno valenza economica, l’esecutorietà non esaurisce il proprio ambito di applicazione ai soli profili del mantenimento (del coniuge o dei figli). Secondo un orientamento giurisprudenziale, invero, anche il provvedimento di assegnazione della casa familiare può valere come titolo esecutivo per il rilascio dell’immobile nei confronti del coniuge che eventualmente non si conformi ad esso. Ciò poiché il comando giudiziale contiene in sé, in forma implicita, la condanna al rilascio nei confronti dell’altro coniuge, il quale, alla scadenza del termine fissato dal giudice, ove non si adegui spontaneamente al contenuto del provvedimento, deve essere qualificato come occupante sine titulo, passibile di esecuzione ad opera dell’altro coniuge, assegnatario [continua ..]
In ogni indagine di taglio processuale sulla separazione e il divorzio resta infine sullo sfondo un interrogativo più ampio, sul perdurante significato e valore dell’apparato giurisdizionale nella crisi della famiglia. La personalità delle relazioni e situazioni soggettive coinvolte, e la correlata delicatezza del conflitto, inducono infatti in questo ambito ad abbandonare impostazioni ormai anacronistiche fondate sul solo dato dell’imperium e ripensare i concetti di giurisdizione e di giustizia, per loro natura polisemici (diverse essendone le possibili declinazioni) in una dimensione che sia realmente al passo con i tempi. Le ultime riforme, e in particolare la l. n. 162/2014, nel predisporre nuovi, alternativi ed equivalenti modelli procedimentali per addivenire alla separazione e al divorzio, hanno dimostrato di voler seguire questa linea, scalfendo i tradizionali apparati della giurisdizione e rifiutandone la natura di potere solo pubblicistico; la giurisdizione viene quindi intesa come “servizio” a misura del cittadino e delle sue esigenze, al monopolio della quale è anche possibile rinunciare laddove la controversia riguardi soggetti adulti e capaci di agire, in posizione paritaria e simmetrica. E nella stessa prospettiva vengono potenziati ulteriori strumenti alternativi o complementari al processo, quali la mediazione familiare, la pratica collaborativa, la coordinazione genitoriale. Sotto questo profilo ben vengano le spinte a favore di una più ampia libertà di reperire accordi anche in materia di status e sulla disciplina delle relative condizioni. In effetti, come non vi è lite che non possa essere risolta tra le parti, così non vi è crisi familiare che non possa essere composta direttamente dai coniugi, con l’ausilio dei propri avvocati. Questi dispongono di spazi, tempi, ed energie adeguate per esaminare le ragioni del conflitto e alla luce delle rispettive posizioni delle parti tentare di individuare un’intesa; anche se perché ciò avvenga occorre la compresenza di differenti fattori, dei quali alcuni ricollegati ai legali (formazione e competenza, abbandono della tradizionale impostazione avversariale), e altri alle stesse parti del processo, che a loro volta devono credere (rectius, forse, essere portate a credere) in una soluzione dialogata, comprendendo che non sarà il processo a poter riportare realmente in equilibrio [continua ..]