Rilevato come una maggiore presenza femminile nel mondo del lavoro si ponga quale deterrente per la violenza economica intrafamiliare e come essa si traduca in un incremento del valore economico aziendale, l’autrice analizza specificatamente gli effetti prodotti dalla legge Golfo Mosca n. 120/2011, che ha introdotto le cd quote rosa obbligatorie per gli organi di amministrazione e di controllo di società quotate e controllate da pubbliche amministrazione.
Le analisi svolte dopo il terzo triennio dall’entrata in vigore della legge rivelano che la parità di accesso garantita con le c.d. quote rosa è stata attuata ben oltre il limite numerico imposto dal maggior numero delle società interessate, con grande beneficio per le stesse in ragione della specifiche competenza apportata dalle donne.
Finding that a greater female presence in the world of work serves as a deterrent against intra-family economic violence, which is translated into the company’s increased economic value, the author specifically analyzes the effects of the Golfo-Mosca Law n. 120/2011, which introduced the so-called “pink quotas” – that is, obligatory quotas for women’s membership in the administration and control bodies of listed companies and companies controlled by public administration.
The analyses carried out after the first three years since the law went into effect show that the equal access guaranteed with these quotas was implemented well beyond the numerical limit imposed by the law to the companies involved. The companies benefitted greatly from particular skills that women bring with them.
1. Relazione tra la minore presenza femminile nel mondo del lavoro e la violenza economica in ambito familiare - 2. Modelli per l’incremento delle presenza femminile nel mondo del lavoro - 3. L’esperienza della l. n. 120/2011 - 4. La presenza femminile nel mondo del lavoro come leva per l’incremento del valore economico aziendale e diminuzione dei fattor di rischio di violenza economica familiare - NOTE
Il Rapporto Un Women 2015 definisce la violenza economica come l’«insieme di atti di violenza finalizzati a mantenere la vittima in una condizione di subordinazione e dipendenza, impedendole l’accesso alle risorse economiche, sfruttandone la capacità di guadagno, limitandone l’accesso ai mezzi necessari per l’indipendenza, resistenza e fuga». In ambito familiare, questo insieme di atti si concretizza di fatto in quell’insieme di comportamenti che vanno dalla limitazione, se non addirittura negazione, all’accesso alle finanze familiari, all’occultamento della situazione patrimoniale e delle disponibilità finanziarie della famiglia, ovvero all’ostacolo o vero e proprio divieto a lavorare fuori casa, o ancora allo sfruttamento come forza lavoro nell’azienda familiare senza dare in cambio nessun tipo di retribuzione. Si è, infatti, riscontrato come l’attuazione di uno o più di questi comportamenti generi in ambito familiare quella forma di controllo diretto che limita e/o impedisce l’indipendenza economica della donna e conseguentemente uno stato di soggezione e dipendenza della medesima che può portare anche ad ipotesi di vere e proprie fattispecie di violenza. La violenza economica è stata oggetto di attenzione anche in sede internazionale e specificatamente codificata dall’art. 3 della Convenzione di Istanbul [1] quale vera e propria condotta di coercizione imposta nelle relazioni familiari. L’art. 3 della Convenzione ricomprende la violenza economica tra gli atti di “violenza domestica” che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima che determinano la compressione della libertà personale. Se oggi, nel nostro ordinamento, le donne possono dire di godere senz’altro dell’eguaglianza giuridica e di tutti gli stessi diritti degli uomini, nella pratica non è così. In ambito lavorativo, è vero che le donne possono accedere a tutte le professioni e a tutti gli uffici, ma – come noto – molti ruoli e funzioni di fatto non sono accessibili alle donne e la disparità economica è ancora molto forte. L’Italia si colloca al penultimo [continua ..]
Da questo punto di vista il tema della violenza economica all’interno della famiglia non può, quindi, prescindere dalla più ampia ed articolata questione che a livello normativo sia sempre ed effettivamente garantito il diritto fondamentale dell’uguaglianza fra donne e uomini in ambito lavorativo. I mutamenti demografici, la necessaria crescita dell’occupazione femminile in presenza del calo delle nascite, pongono gli Stati di fronte al problema di come garantire e rinnovare l’equilibrio tra i sessi nel mondo del lavoro. Il modello familiare che si sta sviluppando in Italia ed in generale in Europa è incentrato su uomini e donne che, impegnati nel lavoro ed equiparati nei diritti, si dividono gli obblighi lavorativi, formativi e familiari. Nel lungo periodo la partecipazione al lavoro più ampia e più lunga di uomini e donne sarà possibile in presenza di una organizzazione del lavoro più flessibile, in cui il lavoro retribuito possa essere compatibile con il lavoro di cura non retribuito e quindi con politiche di welfare che tengano conto di tutti i fattori di cambiamento della popolazione. Nel breve periodo e anche nell’ottica di favorire ed accelerare un mutamento di visione accanto a modelli di auto-regolamentazione (i.e. Svezia, Regno Unito, Finlandia), o a quelli che promuovono la trasparenza e il merito nel processo di selezione, vi sono modelli che puntano alle quote di genere (i.e. Norvegia, Francia), come strumento coercitivo e di imposizione della presenza del genere meno rappresentato in determinati ambiti: politica, ruoli manageriali di direzione e controllo. In alcuni ambiti, come vedremo nel seguito, l’Italia ha scelto un modello che può definirsi sostanzialmente misto, che ha garantito in maniera rapida e repentina l’incremento quantitativo della presenza femminile, con una netta inversione di tendenza. Ci si riferisce in particolare all’introduzione nel nostro ordinamento di specifiche norme che garantiscano la parità di accesso agli organi di amministrazione (board) e di controllo (collegi sindacali) delle società quotate nei mercati regolamentati e nelle società controllate dalle pubbliche amministrazioni: la l. n. 120/2011 voluta e portata avanti in particolare ed in maniera assolutamente traversale dalle on. Lella Golfo e on. Alessia Mosca, parlamentari dei due schieramenti [continua ..]
La l. 12 luglio 2011, n. 120, meglio conosciuta come legge Golfo-Mosca o legge sulle quote rosa all’interno degli organi di amministrazione e controllo delle società quotate e delle società controllate da pubbliche amministrazioni, ha introdotto modifiche al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, concernenti la parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate in mercati regolamentati. Successivamente, la Delibera Consob 8 febbraio 2012, n. 18098, ha apportato modifiche al Regolamento di attuazione del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, concernente la disciplina degli emittenti, adottato con Delibera 14 maggio 1999, n. 11971 e successive modifiche. Ed infine con il d.p.r. 30 novembre 2012, n. 251 è stato varato il Regolamento concernente la parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo nelle società, costituite in Italia, controllate da pubbliche amministrazioni, ai sensi dell’art. 2359, 1° e 2° comma, c.c., non quotate in mercati regolamentati, in attuazione dell’art. 3, 2° comma, della l. 12 luglio 2011, n. 120. Questi interventi hanno introdotto una disciplina specifica riguardo alla parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo nelle società quotate e nelle società controllate da pubbliche amministrazioni, con decorrenza 11 febbraio 2013 e per i successivi tre rinnovi. Scopo delle norme era quello di garantire che il genere in quel momento meno rappresentato, i.e. quello femminile, potesse ottenere a regime, almeno un terzo dei componenti di ciascun organo societario (board e collegi sindacali). La quota di genere ha trovato applicazione a decorrere dai primi rinnovi degli organi societari successivi alla data del 12 febbraio 2013, in molti casi già nella primavera del 2013. Ad oggi siamo al secondo rinnovo, in alcuni casi anche al terzo. A settembre 2016 è stata resa disponibile in Parlamento la prima relazione triennale per il periodo 12 febbraio 2013-11 febbraio 2016 sullo stato di applicazione della normativa e sui risultati dell’attività di monitoraggio e vigilanza condotta. Dalla relazione rinviene un tendenziale aumento della percentuale delle donne che ricoprono ruoli di vertice: a febbraio 2016, le donne rappresentavano più di [continua ..]
In conclusione, atteso che apprezzabili studi hanno dimostrato che la presenza femminile nel mondo del lavoro diversifica la dialettica, apporta eterogeneità nei processi decisionali e ciò in ragione della maggiore attitudine delle donne alla mediazione e alla risoluzione dei conflitti, possono ritenersi apprezzabili tutti quegli interventi normativi che impongano in maniera coercitiva la presenza femminile nel mondo del lavoro, così da garantire una maggiore possibilità della donna di realizzare la propria indipendenza economica. Del resto le donne hanno una maggiore attitudine per visioni di lungo termine nel perseguimento dei risultati imprenditoriali, una maggiore indipendenza ed immunità da potenziali conflitti di interesse in ragione della naturale lontananza dai cosiddetti old boys clubs ed una più spiccata contrarietà all’azzardo morale. Sono tendenzialmente più attente ai temi ambientali e ai profili legati ad un migliore ambiente di lavoro. Pertanto, una maggiore presenza femminile nel mondo del lavoro determina senz’altro un incremento del valore economico aziendale. Certo, bisogna capire quali leve affiancare agli interventi normativi specifici che, come quello esaminato, hanno magari una durata temporale limitata. Senz’altro le donne che siedono finalmente nei ruoli di comando e hanno conquistato il potere decisionale dovrebbero ispirare le altre donne: le donne devono ancora consolidare l’empowerment verso cui senz’altro si sono avviate, ma che ancora non hanno pienamente raggiunto. Dovrebbero anche incentivare altre donne, riflettendo sull’utilità ed opportunità di fare network e mettere a fattor comune le esperienze realizzate, così da innescare un effetto traino verso il “circolo virtuoso” della parità di genere nel mondo del lavoro anche quale generale strumento di lotta alla violenza economica in ambito familiare. Devono essere poste in essere e favorite, attraverso sostegni concreti, tutte quelle azioni volte alla diffusione della consapevolezza del valore etico ed economico della parità di genere e la combinazione del principio dell’empowerment femminile con il cambiamento culturale. Devono essere favorite politiche che riducano il divario di genere in tema di retribuzioni, salari e pensioni e sostenere nuove forme di [continua ..]