1. Premessa - 2. La presunzione di distribuzione "occulta" di utili nelle società di capitali "familiari": l'asserita posizione inferenziale - 3. Le pronunce giurisprudenziali "maggiormente illuminate" - 4. Strumenti di controllo da parte dei titolari di quote di partecipazione - 5. Conclusioni - NOTE
È di consueta e diffusa esperienza professionale la costituzione – e successiva consequenziale gestione delle relative dinamiche aziendali – di strutture societarie a ristretta base azionaria; in altri e più chiari termini, di società nelle quali la compagine sociale risulta rappresentata da un numero limitato e circoscritto di soci, frequentemente legati, peraltro, da rapporti di parentela e/o affinità. Al riguardo occorre chiarire e precisare subito che, sotto un profilo squisitamente civilistico, non sussiste una definizione giuridica di “società” – lato sensu – a ristretta base societaria ovvero “familiare”. Sul punto sono i Giudici di merito e di legittimità che hanno considerato rilevanti specifici e distinti rapporti partecipativi (rilevanti, segnatamente, da un punto di vista tributario, nel caso di specie spesso aderendo, in maniera supinamente acritica e pedissequa, alle tesi dell’Amministrazione finanziaria, talvolta meramente richiamando, con tono palesemente apodittico, quindi senza un’autonoma ed analitica valutazione, pronunce giurisprudenziali precedenti) qualificando quali situazioni a “ristretta base familiare” le strutture societarie nelle quali risultino soci: [i] i coniugi; [ii] uno ovvero entrambi i genitori unitamente ad uno o più figli (con assegnata relativa rappresentanza legale); [iii] un numero, almeno, di due fratelli. In particolare, proprio la presenza di vincoli familiari ovvero di rapporti di forte complicità e reciproco controllo tra soci o ancora la sussistenza di una base sociale significativamente ristretta hanno legittimato, in tema di accertamento delle imposte sui redditi da parte dell’Agenzia delle Entrate, la presunzione di attribuzione alla circoscritta compagine societaria di eventuali utili extracontabili accertati in capo alla società di capitali. Ciò, evidentemente, anche in ragione della circostanza che attraverso lo schermo societario i familiari – dunque, stricto sensu, i coniugi – ben potrebbero disporre ed usufruire di significativi e consistenti “benefit” di natura economico-patrimoniale non direttamente riconducibili e/o intestati alle persone fisiche: intesi essi “benefit” non nella loro accezione fiscale, bensì come [continua ..]
Nelle società di persone (s.n.c./s.a.s.) vige, come noto, il cosiddetto “principio di trasparenza” in ossequio e conformità al quale il reddito prodotto dalla società viene assoggettato a tassazione direttamente in capo ai singoli soci (proporzionalmente alle quote di partecipazione) indipendentemente dalla effettiva percezione [1]. Diversamente, e fatte salve le espresse particolari disposizioni normative sul regime opzionale di trasparenza fiscale [2], le società di capitali risultano dotate di una autonoma soggettività tributaria e, consequenzialmente, gli utili societari concorrono alla formazione del reddito imponibile dei soci in quanto da questi ultimi effettivamente percepiti [3] (principio di cassa). Siffatto postulato è stato, tuttavia, più volte disatteso proprio in presenza di situazioni societarie a limitata base partecipativa. Nella prassi è, invero, costante la motivazione degli atti di accertamento notificati dall’Agenzia delle Entrate ai soci sostanzialmente fondati sulla presunzione – evidentemente, di palese “mera” fonte giurisprudenziale e non legale [4] – di distribuzione, quindi imputazione, ai medesimi di utili extracontabili accertati in capo alla società. Valgano, al riguardo, ex multis, le seguenti pronunce quale consolidato orientamento della Suprema Corte che, essenzialmente, ha ritenuto accertata una determinata fattispecie in presenza di altro elemento o fatto indiziario avendo reso, in tal modo, concreto il rischio di un utilizzo draconiano della presunzione di cui trattasi nell’ambito dei rapporti contribuente-fisco, (utilizzo) contrario, oltretutto, al sistema sia sotto il profilo processuale sia da un punto di vista sostanziale: – Cass. 4 dicembre 2006, n. 25689 dove è stato affermato, testualmente, che «... omissis ... non si possono evincere metodi differenziati sull’utilizzazione della presunzione di riparto fino a esigere una prova rafforzata dell’effettiva percezione allorché i proventi risultino comunque collegabili ad operazioni non dichiarate poste in essere da una società a ristretta base azionaria che non li abbia contabilizzati, tanto bastando a far logicamente presumere l’attribuzione “pro quota” ai soci – per il vincolo di solidarietà e di [continua ..]
Già con sent. 20 marzo 2000, n. 3254, i Giudici di legittimità avevano (lucidamente) sancito che la ristretta base sociale costituisse sì un “indizio” su cui fondare l’inferenza presuntiva per approdare al fatto ignoto dell’effettiva distribuzione di utili; tuttavia da ritenersi, esso indizio, corretto se valutato unitariamente e complessivamente rispetto a tutti gli elementi oggetto della fattispecie esaminata. In particolare, nel caso concreto esaminato dal Collegio, la Cassazione, segnalata l’astratta correttezza dell’argomentazione logico-giuridica motivata in ragione della limitata compagine societaria, ha tuttavia sancito il principio secondo il quale «... omissis ... in caso di confermata esistenza degli utili non contabilizzati di cui all’accertamento dell’ufficio ... omissis ...» debba comunque essere opportunamente valutata «... omissis ... la circostanza della ristretta base azionaria e della organizzazione aziendale a prevalente partecipazione familiare quali indizi dell’avvenuta distribuzione ai soci di tali utili ... omissis ...». Siffatto principio – scilicet, la ristretta base familiare della compagine sociale rappresenta un dato di fatto che non consente di per se stesso di trarre come univoca o, comunque, più probabile e verosimile, rispetto ad altre possibili, la conclusione che gli utili societari non dichiarati siano stati effettivamente distribuiti ai soci – è stato più recentemente affermato dalla giurisprudenza di merito, segnatamente: – CTP Milano, sent. 2 agosto 2013, n. 92 ove è stato precisato e chiarito che «... omissis ... la ristretta base societaria ed i vincoli di parentela, nel silenzio del legislatore, non siano elementi sufficienti a legittimare la presunzione della distribuzione ai soci del maggior reddito accertato, in capo alla società di capitali, richiedendosi invece altri riscontri gravi, precisi e concordanti, a supporto della presunzione semplice di distribuzione degli utili extra contabili, come avviene invece per la presunzione legale stabilita dal legislatore per le società di persone. Occorre quindi che l’Amministrazione Finanziaria provi la reale percezione, proquota da parte dei soci, del maggior reddito societario, con ulteriori [continua ..]
L’azione riformatrice attuata dal legislatore civilistico tramite il d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6 ha attribuito rilevanza centrale alla posizione dei soci, in particolare attraverso il rafforzamento dei diritti di informazione e di consultazione, già peraltro disciplinati, seppur con minore ampiezza, dal previgente art. 2489 c.c. Infatti, l’attuale art. 2476, 2° comma, c.c., statuisce, testualmente, che «I soci che non partecipano all’amministrazione hanno diritto di avere dagli amministratori notizie sullo svolgimento degli affari sociali e di consultare, anche tramite professionisti di loro fiducia, i libri sociali ed i documenti relativi all’amministrazione». Pertanto al coniuge eventualmente proprietario di una quota di partecipazione, anche minima, al capitale sociale ma escluso [5] dalla gestione attiva dell’impresa in quanto non titolare di alcuna carica di natura amministrativo-consiliare, verrebbe comunque riconosciuta, in quanto portatore di un proprio interesse economicamente tutelato dalla legge, la possibilità di un consapevole ed efficace controllo sulle dinamiche aziendali, attraverso: - il diritto all’informazione (“notizie sullo svolgimento degli affari sociali”): da intendersi in una accezione ampia del termine tale da ricomprendervi, a titolo esemplificativo ma non esaustivo, la richiesta di 1) chiarimenti e precisazioni attinenti situazioni economico-patrimoniali periodiche della società (i.e.: esistenza, o meno, di specifici assets mobiliari e immobiliari; presenza, o meno, di crediti commerciali e/o di diversa natura; ammontare delle disponibilità liquide esistenti sugli estratti conto bancari; stato e natura dell’indebitamento; composizione delle principali voci di costo; impiego e remunerazione del capitale investito, ecc.); 2) notizie su singoli affari intrapresi; 3) dati sull’andamento generale dell’impresa; - il diritto di consultazione («anche tramite professionisti di loro fiducia, i libri sociali ed i documenti relativi all’amministrazione»): espressione tramite la quale, ad opinione e giudizio di chi scrive, possono ragionevolmente essere annoverate ed incluse sia le scritture contabili, civilistiche e fiscali, obbligatorie (i.e., libro giornale, registri ai fini IVA, libro verbali assemblee, libro [continua ..]
Come osservato da autorevole dottrina [9] «l’argomento della ristrettezza della base societaria non ha, da solo, valenza probatoria nell’ambito dell’inferenza presuntiva, rappresentando un mero indizio da valutare in relazione ad altri elementi che l’Amministrazione finanziaria deve acquisire, dal momento che il contribuente non può certamente fornire la prova della mancata percezione di utili occulti, che si configura alla stregua di una prova negativa (probatio diabolica): è solo in tale modo che l’Ufficio prova presuntivamente il fatto costitutivo della pretesa ed è solo in tale modo che il contribuente può opporre la prova dei fatti impeditivi, modificativi o estintivi della stessa in ossequio e conformità all’art. 2697 del Codice Civile». Siffatte valutazioni conclusive si ritiene debbano essere adeguatamente e in modo conferente considerate anche ogni qualvolta il “confronto dialettico” non sia tra l’Amministrazione finanziaria ed il contribuente, bensì nell’ambito di un rapporto coniugale: necessità di esaminare efficacemente e valutare opportunamente le reciproche capacità reddituali, patrimoniali e finanziarie, in particolare allorquando la titolarità di beni e/o servizi risulti non direttamente riferibile ai medesimi bensì mediata attraverso proprio l’esistenza di partecipazioni in società di diversa natura. Dovendosi, tuttavia, anche nel caso di specie considerare che “affirmanti incumbit probatio”.