L’autore pone in evidenza le ragioni per cui è da apprezzare l’impegno profuso dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sent. n. 18287/2018 per rendere coerente ed aggiornato il sistema normativo, ma auspica un intervento del legislatore, che possa prevedere l’attribuzione di un assegno divorzile che abbia tuttavia una durata limitata nel tempo. L’autore auspica l’intervento legislativo anche per la introduzione nell’ordinamento italiano dei patti prematrimoniali, che, valorizzando la volontà dei coniugi prima della crisi di coppia, possa prevenire i contenziosi. Un suggerimento (ancorché indiretto ed implicito) a percorrere questa strada, evidenzia l’autore, pare venire infatti proprio dalla stessa sentenza delle Sezioni Unite, laddove, nel paragrafo 12 dedicato alle “considerazioni conclusive” afferma la «natura prevalentemente disponibile dei diritti in gioco», sino ad ora sempre negata.
The author, while casting light on the reasons why to appreciate the effort made by the United Sections of the Supreme Court of Cassation with decision n. 18287/2018 to update the regulatory system and bring it consistency, expresses hopes for legislation able to assign alimony having a duration limited in time. The author also hopes for legislative intervention to introduce into Italian law prenuptial agreements, which, by assigning value to the spouses’desires prior to the their marital crisis, can prevent litigation. One suggestion (albeit indirect and implicit) for following this path, the author points out, appears to arise in fact precisely from the United Sections’decision where, in paragraph 12 dedicated to “final considerations”, it affirms the «prevalently available nature of the rights in play», which until now was always denied.
1. Le Pronunce delle Sezioni Unite del 1990 - 2. La Pronuncia n. 11504/2017 - 3. La giurisprudenza successiva. Considerazioni - 4. L'intervento delle Sezioni Unite - 5. Considerazioni personali - 6. Conclusioni - NOTE
La sentenza in esame era particolarmente attesa, considerato soprattutto che l’intervento delle Sezioni Unite è stato determinato su richiesta di parte e non già a fronte di un rilevato contrasto di diritto nelle sezioni semplici. Come è noto, l’art. 5, 6° comma, l. n. 898/1970, nel testo introdotto con l. n. 74/1987, prevede l’attribuzione di assegno divorzile in favore del coniuge che «non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive». La previsione necessita di un’integrazione per individuare il parametro cui rapportare la valutazione dell’adeguatezza dei mezzi. A seguito delle celebri sentenze delle Sezioni Unite del 1990 si era sviluppato un orientamento, condiviso in maniera monolitica per ventisette anni dalla giurisprudenza di legittimità e di merito [1]. Si era così affermato che il giudizio sull’assegno divorzile si struttura in due fasi, la prima afferente l’an debeatur e la seconda l’eventuale quantum. Nella prima fase, l’accertamento della disponibilità di mezzi adeguati (inteso come redditi e patrimoni) avrebbe dovuto essere rapportato al tenore di vita coniugale, attribuendosi così all’assegno funzione assistenziale in senso lato. Dunque, a base dell’assegno, vi doveva essere una disparità economico e patrimoniale tra i coniugi, che avrebbe indotto a ritenere che, ove non fosse intervenuto il divorzio, il coniuge “debole” avrebbe potuto continuare a godere di quel tenore di vita che il coniuge “forte” era in grado di procacciare alla famiglia. La quantificazione dell’assegno sarebbe stata da effettuare sulla scorta dei parametri di cui alla norma citata (condizioni dei coniugi, ragioni della decisione, contributo di ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune, durata del matrimonio).
L’insoddisfazione crescente verso il suddetto criterio interpretativo, che finiva per poter dar luogo ad una sorta di “ultrattività” del matrimonio, con la costituzione di rendite di posizione a favore del coniuge beneficiario dell’assegno, ha dato luogo ad una questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, l. n. 898/1970, alla luce del “diritto vivente” sollevata dal Tribunale di Firenze, per sospetta violazione degli artt. 2, 3, 29 Cost. [2]. Come prevedibile, la Corte ha dichiarato infondata la questione, affermando come il parametro del tenore di vita rilevasse solo per determinare il tetto massimo della misura dell’assegno, dovendo quel parametro essere bilanciato con i ricordati criteri di cui all’art. 5, intesi come fattori di riduzione se non anche di esclusione in concreto del quantum, rispetto all’accertamento dell’an debeatur, da condursi solo in astratto [3]. La Sezione I della Corte di Cassazione, con la nota sent. n. 11504/2017, ha recepito parte delle osservazioni della suddetta ordinanza di rimessione ed ha sensibilmente modificato il precedente orientamento, invocando il principio di autoresponsabilità sotteso al matrimonio [4]. La Corte ha ribadito la natura bifasica del giudizio sull’assegno divorzile, individuando peraltro un diverso parametro di riferimento. Confermando la natura assistenziale dell’assegno, siccome spettante al coniuge privo di mezzi e incapace di procurarseli, si è affermato che il parametro di adeguatezza degli stessi avrebbe dovuto essere individuato nell’autosufficienza o indipedenza economica; solo il coniuge che non avesse raggiunto, con i propri redditi o con il proprio patrimonio, detto parametro, avrebbe avuto titolo per vedersi attribuire l’assegno, giustificato da esigenze di solidarietà post-coniugale. A ben vedere, pur mantenendosi formalmente natura assistenziale all’assegno, cambiava sostanzialmente la funzione dell’assistenza (non più mantenere un tenore di vita corrispondente a quello della pregressa convivenza, ma garantire il raggiungimento dell’indipendenza). Nel contempo, la Cassazione ha tenuto ad individuare i parametri su cui rapportare il giudizio sull’an deberatur (possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di cespiti patrimoniali, capacità e possibilità effettiva di [continua ..]
L’indirizzo inaugurato con la sentenza n. 11504 è stato condiviso unanimemente dalla Sezione I della Corte di Cassazione, anche se non sono mancate interpretazioni che hanno cercato di mitigare l’assolutezza del principio di diritto espresso; si è così affermato che il parametro dell’autosufficienza non poteva essere determinato in via generale ed astratta, dovendosi far riferimento alla concreta situazione del richiedente (età, condizioni di salute, possibilità concreta di accedere al mondo del lavoro per procurarsi i mezzi), sì da garantirgli un’esistenza libera e dignitosa (con ciò distinguendosi l’assegno divorzile da quello alimentare, che l’ex coniuge nemmeno avrebbe titolo per richiedere); nel contempo si è evidenziata la compatibilità del nuovo criterio di liquidazione dell’assegno con il dettato costituzionale [5]. La giurisprudenza di merito si è adeguata per la maggior parte alla nuova interpretazione dell’art. 5, l. n. 898/1970, anche se non sono mancate Pronunce di segno opposto. Il revirement operato dalla Corte di Cassazione nel 2017 in linea di massima era condivisibile, posto che il pregresso criterio del tenore di vita, applicato in modo indiscriminato, dava luogo sovente a forme di ingiusta “locupletazione”, che svilivano la funzione del matrimonio e potevano limitare la formazione di una nuova famiglia da parte del coniuge più forte. E ciò tanto più, per le modalità con le quali detto tenore di vita veniva accertato (sulla scorta di una comparazione aggiornata tra le dichiarazioni reddituali, tenendosi conto anche degli incrementi economici del coniuge onerato, che fossero conseguenza di aspettative sorte durante la vita coniugale). In questo contesto si ascrive l’intervento “correttivo” della giurisprudenza, volto ad escludere definitivamente l’assegno, a fronte della instaurazione di una stabile convivenza da parte del coniuge beneficiario, nel presupposto che detta convivenza viene a rescindere il nesso di causalità tra condizione attuale del titolare dell’assegno e pregresso tenore di vita da lui goduto; in precedenza si riteneva invece che la convivenza avrebbe soltanto dato luogo ad una acquiescenza dell’assegno per la durata della convivenza. Nel contempo, si dovevano peraltro evidenziare le gravi [continua ..]
Proprio le suddette criticità hanno dato luogo alla richiesta di intervento delle Sezioni Unite, in una fattispecie in cui, in sede di separazione consensuale, i coniugi (non è dato comprendere dalle premesse della sentenza annotata se vi fossero o meno figli) avevano escluso qualsiasi contributo al mantenimento; in sede di divorzio, il Tribunale liquida un congruo assegno alla moglie, che viene invece revocato in appello, per essere la moglie stessa percettrice di un considerevole stipendio, oltre che titolare di un notevole patrimonio mobiliare ed immobiliare. La decisione in esame si cimenta nel difficile tentativo di interpretare l’art. 5, 6° comma alla luce del mutato contesto sociale e normativo, convenzionale ed internazionale, ed offre una soluzione equilibrata, anche se non immune da qualche censura (soprattutto metodologica) che dovrebbe peraltro essere emendata da un oramai indifferibile intervento del legislatore. Nel dilemma dell’individuazione del parametro di raffronto dell’inadeguatezza dei mezzi, le Sezioni Unite affermano la natura autosufficiente della norma in questione, che osterebbe alla ricerca di parametri esterni ad essa. Sono proprio i criteri contemplati dalla prima parte della norma, frutto di una “valutazione del tutto equiordinata”, a costituire il parametro per l’attribuzione e quantificazione dell’assegno Viene così sconfessata la tradizionale natura bifasica del procedimento per la liquidazione dell’assegno, su cui mai vi era stata contestazione; i criteri normativi, in precedenza relegati alla sola fase del quantum, rilevano oggi anche ai fini dell’an. All’assegno viene riconosciuta pur sempre natura assistenziale, con la specificazione che ad essa può affiancarsene altra, di tipo compensativo-perequativo (ed in tal senso la decisione ricorda le Pronunce rese sotto la vigenza dell’originario testo dell’art. 5, che non faceva riferimento alcuno all’adeguatezza dei mezzi, ragion per cui la giurisprudenza aveva attribuito all’assegno triplice natura: assistenziale, compensativa e risarcitoria). A base dell’assegno divorzile rimane pur sempre una situazione di “squilibrio” tra le condizioni economico e patrimoniali dei coniugi, la cui esistenza o inesistenza le parti, per quanto di reciproca spettanza, avranno l’onere di dimostrare, salvo i poteri d’ufficio del [continua ..]
La Pronuncia delle Sezioni Unite, pur dichiarando il superamento della natura bifasica del procedimento di accertamento dell’assegno, in realtà implicitamente conferma, avuto riguardo allo stesso testo dell’art. 5, 6° comma, l. n. 898/1970, l’attribuzione dell’assegno alla mancanza di mezzi adeguati e all’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive. Precisa infatti la sentenza che «il legislatore impone di accertare, preliminarmente, l’esistenza e l’entità dello squilibrio determinato dal divorzio». Se detto squilibrio non sussiste, nessun assegno potrà essere liquidato; se così non è, si darà corso ad una liquidazione, di natura assistenziale, ovvero anche compensativa. Sta di fatto (e qui si annida a mio avviso la criticità della sentenza) che tra i vari criteri previsti dall’art. 5, 6° comma (oggi rilevanti ai fini sia dell’an che delquantum debeatur) viene valorizzato solo quello del contributo fornito dal coniuge più debole alla formazione del patrimonio comune e quello dell’altro coniuge, anche in relazione alle potenzialità future. Le Sezioni Unite intendono infatti ristorare il coniuge debole per quei sacrifici e quelle rinunce fatte nell’interesse della famiglia, di cui si avvantaggerebbe solo l’altro coniuge, in conseguenza dello scioglimento del matrimonio. Sotto questo specifico aspetto la decisione è condivisibile anche se non esaustiva, nella parte in cui richiama l’art. 29 Cost., non invece presente nella decisione n. 11504/2017, che faceva riferimento all’art. 23 Cost. (previsione afferente la capacità contributiva nel rapporto con l’ente pubblico impositore). È certamente vero che con il divorzio il matrimonio si scioglie (e quindi viene meno lo status, tanto che i coniugi tornano ad essere “persone singole”), tuttavia non possono essere vanificati gli accordi che i coniugi avevano assunto per la gestione della famiglia, magari con l’assunzione di precisi ruoli al suo interno, nella prospettiva della permanenza del vincolo. La sentenza in esame richiama all’uopo l’art. 143 c.c., afferente i doveri dei coniugi (tra i quali quello di contribuire ai bisogni della famiglia), ma stranamente omette qualsiasi riferimento all’art. 144 c.c., quanto al concorso condiviso dei coniugi nella vita [continua ..]
In conclusione, pur dando atto dell’impegno della Cassazione di rendere coerente ed aggiornato il sistema normativo, sarebbe opportuno un intervento (purché razionale) del legislatore, che potesse prevedere anche l’attribuzione di un assegno temporaneo, per consentire al coniuge, privo di mezzi o che abbia sacrificato se stesso per il matrimonio, di potersi procurare reddito, reimmettendosi nel mondo del lavoro. Con il che il giudice ben potrebbe modulare diversamente l’importo dell’assegno stesso. Del pari sarebbe quanto mai opportuno ripensare alla disciplina dei patti prematrimoniali, che, valorizzando la volontà dei coniugi prima della crisi di coppia, possa prevenire i contenziosi. Un suggerimento (ancorché indiretto ed implicito) a percorrere questa strada pare venire dalla stessa sentenza delle Sezioni Unite, là dove, nel paragrafo 12, dedicato alle “considerazioni conclusive” afferma la «natura prevalentemente disponibile dei diritti in gioco», in precedenza radicalmente negata, anche solo a livello di principio.