1. Premessa - 2. Le circostanze aggravanti comuni - 3. Le fattispecie specifiche e le circostanze aggravanti speciali nei delitti contro la persona - 4. Il delitto di atti persecutori - 5. La non punibilità nei delitti contro il patrimonio ... - 6. ... e contro l'amministrazione della giustizia - 7. I delitti contro la famiglia - 8. Famiglia legittima e famiglia di fatto - 9. Conclusioni - NOTE
Accostare il diritto penale alle relazioni affettive ed allo stesso concetto di famiglia [1] si presenta come un’operazione psicologicamente ruvida, posto che una dimensione intima, di per sé positiva ed appagante, viene quasi ad inquinarsi nel contatto con il mondo dell’illecito e delle sanzioni criminali: il che sta a significare che la sfera dei sentimenti potrebbe venir violata, una sorta d’incantesimo essere frantumato ed un ideale messo a contatto con la dura realtà. Invero, questo è il destino stesso del giure penale, che certo non avrebbe ragione d’esistere se le norme, morali prima ancora che giuridiche, non venissero infrante, se nello stesso essere umano non albergasse la figura di Caino assieme a quella di Abele. Ma, tant’è, questa è la grandezza e la drammaticità dell’uomo, lo scotto che paga per la sua libertà di scegliere i propri comportamenti e, di conseguenza, di portarne la responsabilità. E questo vale anche per il settore oggetto della nostra riflessione, per quanto spiacevole possa essere. Si tratta, dunque, di chiedersi in quale modo il sistema penale possa intervenire a tutela di una relazione interpersonale guidata dall’affectio, sia essa consacrata o meno nel contesto istituzionale del consorzio familiare.
Il primo piano di lettura muove dal rilievo che il rapporto affettivo può, in un certo qual senso, rendere più agevole la commissione di un reato, posto che il sentimento esistente fra le parti rende una di queste più debole, facilitando la commissione dell’illecito a suo danno da parte dell’altra. Il legislatore ha previsto tale eventualità disponendo, all’art. 61, n. 11, c.p., una circostanza aggravante comune (cioè valida per tutti i reati, con un aumento della pena base sino ad un terzo), e di ampia portata, che si applica per «l’avere commesso il fatto con abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni d’ufficio, di prestazione d’opera, di coabitazione, o di ospitalità». Ovviamente, per abuso di autorità si intende l’autorità privata (l’abuso di autorità pubblica è previsto nel n. 9 dello stesso art. 61), quale, ad esempio, quella genitoriale. La ratio di tale aggravante comune poggia sul concetto di abuso, nel senso che trattasi di un “abuso di fiducia”, di quella fiducia sorta pressoché spontaneamente nel costante, quotidiano svolgersi delle relazioni interpersonali citate. In altri termini, si è approfittato di chi si fidava, che aveva abbassato la guardia, se mai l’aveva alzata. Non diverso il discorso per le aggravanti comuni riferibili al reato plurisoggettivo, anche se le disposizioni presentano un quadro più complesso. In rapida sintesi, si tratti di determinazione od istigazione di persona non imputabile (art. 111), ovvero di determinazione od istigazione di un minore o di un imputabile menomato (art. 112, 1° comma, n. 4), non solo vengono previste delle aggravanti per il determinatore o l’istigatore (artt. 111, 1° comma e 112, 1° comma, n. 4), ma in tutte le ipotesi viene stabilito un ulteriore aggravamento se si tratta del genitore esercente la potestà (art. 111, 2° comma; art. 112, 3° comma). Anche in queste ipotesi la ratio della norma è individuabile con chiarezza. Il delitto, infatti, è valutato più gravemente nei confronti di colui che eserciti una pressione psicologica a delinquere nei confronti di soggetti che, per le loro condizioni psico-fisiche, presentino una minorata capacità a resistere a tali pressioni. Parimenti, il delitto [continua ..]
Il secondo piano di lettura contempla specifici delitti, non necessariamente intrafamiliari, ma che possono essere compiuti in tale contesto. In questa ipotesi sono previste fattispecie incriminatrici specifiche ovvero circostanze aggravanti, ovviamente speciali ovvero autonome, in quanto connesse solamente a tali reati. Alludiamo, in particolare, ai delitti contro la persona (Titolo XII) previsti dal codice penale. Nell’ambito del delitti contro la persona viene subito in esame il delitto di omicidio (art. 575 c.p.). Ebbene, l’art. 577 afferma, al 1° comma, che «si applica la pena dell’ergastolo se il fatto preveduto dall’art. 575 è commesso: 1) contro l’ascendente o il discendente [...]», mentre il 2° comma dispone altresì, che «la pena è della reclusione da ventiquattro a trenta anni, se il fatto è commesso contro il coniuge, il fratello o la sorella, il padre o la madre adottivi, o il figlio adottivo, o contro un affine in linea retta». Poiché la norma citata si riferisce a “ascendenti” e “discendenti”, è necessario richiamare l’art. 540 c.p., il quale afferma che «agli effetti della legge penale, quando il rapporto di parentela è considerato come elemento costitutivo o come circostanza aggravante o attenuante o come causa di non punibilità, la filiazione illegittima è equiparata alla filiazione legittima». Si tratta di un’importante disposizione che, per quanto contenuta nella parte speciale del codice, ha una portata generale, poiché inizia con l’inciso «agli effetti della legge penale». Il 2° comma dell’art. 577 allarga l’ipotesi dell’omicidio aggravato ad altri membri della famiglia, giungendo ad includere pure gli affini in linea retta. A tale proposito è necessario richiamare un’altra norma del codice penale, l’art. 307, 4° comma, il quale afferma che «agli effetti della legge penale, s’intendono per prossimi congiunti gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti; nondimeno, nella denominazione di prossimi congiunti, non si comprendono gli affini, allorché sia morto il coniuge e non vi sia prole». Peraltro, l’art. 585 dispone che le aggravanti inerenti ai rapporti familiari evidenziate per [continua ..]
Inerente al tema in oggetto appare l’art. 612 bis c.p., rubricato “Atti persecutori” (introdotto dall’art. 7 del d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito nella l. 23 aprile 2009, n. 38, ed inserito nel codice fra i delitti contro la persona e, più precisamente, contro la libertà morale) [2], il quale punisce, «salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie scelte o abitudini di vita». A tale proposito, se per prossimo congiunto devono intendersi le figure già individuate dal citato art. 307, 4° comma, c.p., deve sottolinearsi che la relazione affettiva non implica la convivenza e come essa non possa confondersi con la relazione sessuale, e che essa possa essere non necessariamente amorosa, ed indifferentemente se fra persone dello stesso o di diverso sesso e, in ogni caso, non di poco conto ma ben apprezzabile. Peraltro, ai sensi del 2° comma dell’art. 612 bis c.p., «la pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge legalmente separato o divorziato o da persona che sia stata legata da relazione affettiva alla persona offesa»: trattasi dell’ipotesi – quanto mai frequente nella realtà – del soggetto che non accetta la fine del rapporto sentimentale, sia esso sancito matrimonialmente o meno, e continua a perseguitare l’ex partner, al fine di ricucire o re-instaurare il rapporto stesso o come ritorsione per la decisione da questi presa. Si noti che, mentre nel caso della relazione affettiva, questa dev’essere cessata, il fallimento del matrimonio dev’essere giuridicamente sancito dalla pronuncia di divorzio ovvero di separazione legale: non appare ammissibile, pertanto, la mera separazione di fatto.
Nei delitti contro il patrimonio viene in rilievo un’unica previsione, l’art. 649, che, quale vera e propria norma di chiusura, si pone alla fine di tale categoria di reati quale “disposizione comune” a tutti, e di particolare rilievo: «Non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti da questo titolo in danno: 1) del coniuge non legalmente separato; 2) di un ascendente o discendente o di un affine in linea retta, ovvero dell’adottante o dell’adottato; 3) di un fratello o di una sorella che con lui convivano. / I fatti preveduti da questo titolo sono punibili a querela della persona offesa, se commessi a danno del coniuge legalmente separato, ovvero del fratello o della sorella che non convivano con l’autore del fatto, ovvero dello zio o del nipote o dell’affine in secondo grado con lui conviventi. / Le disposizioni di questo articolo non si applicano ai delitti preveduti dagli articoli 628, 629 e 630 [rapina, estorsione e sequestro di persona a scopo di estorsione] e ad ogni altro delitto contro il patrimonio che sia commesso con violenza alle persone». Come mai, dunque, questo favor nei confronti di determinati delitti intra-familiari, favor tanto più accentuato quanto più stretto è il vincolo familiare? La ratio è di origine antica, e si identifica non nella indifferenza, da parte dello Stato, riguardo ai rapporti intrafamiliari con riflessi patrimoniali, bensì in una vera e propria “tutela del patrimonio familiare”, nel senso che esso deve conservare la propria integrità e non deve venir disperso. Donde la mancata punibilità se il patrimonio rimane nell’ambito della famiglia, dati gli stretti vincoli che legano il soggetto attivo e quello passivo del reato. Donde una tutela minore, rappresentata dalla punibilità a querela di parte, se si rimane nel contesto familiare, ma i relativi vincoli sono meno stretti. Infine, una assenza di tutela, se il reato è caratterizzato da forme di violenza, che ovviamente prevalgono sull’esigenza della conservazione del patrimonio nel seno della famiglia. Lo schema è esattamente l’inverso di quello vigente per i delitti contro la persona, specie quelli a matrice sessuale: ivi quanto più il vincolo familiare è stretto, tanto più grave è il reato; ove esso si allenta, il delitto [continua ..]
Per altro verso, l’art. 384, 1° comma, c.p. dispone che «Nei casi previsti dagli articoli 361, 362, 363, 364, 365, 366, 369, 371-bis, 371-ter, 372, 373, 374 e 378, non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore». Siamo nell’ambito dei delitti contro l’amministrazione della giustizia, quali omessa denuncia da parte del pubblico ufficiale, dell’incaricato di pubblico servizio ovvero del cittadino, omissione di referto, rifiuto di uffici legalmente dovuti, autocalunnia, false informazioni al pubblico ministero ovvero al difensore, falsa perizia o interpretazione e, in particolare, i reati di falsa testimonianza (art. 372 c.p.) e di favoreggiamento personale (art. 378 c.p.). Il preciso richiamo al “prossimo congiunto” rinvia alla definizione di cui citato art. 307, 4° comma, c.p., e la prevista causa di non punibilità effettua un giudizio di comparazione valoriale, ritenendo l’affectio che conduce alla necessità di salvare costui da quel grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore come prevalente rispetto ad una primaria funzione dello Stato, quale il rendere giustizia.
Si è così giunti al terzo piano di lettura. Il Titolo XI del Libro II del Codice, dedicato, per l’appunto, ai “Delitti contro la famiglia”, è diviso in quattro Capi. Trascuriamo, in questa sede, i primi tre, disciplinanti i delitti, rispettivamente, contro il matrimonio, contro la morale familiare e contro lo stato di famiglia, per accentrare l’attenzione sul quarto, che contempla i “delitti contro l’assistenza familiare”, anche se, a ben vedere, la stessa rubrica del Capo non appare del tutto corretta, posto che, dei sei delitti previsti, solo il primo appare ad essa direttamente riconducibile. Alludiamo all’art. 570 c.p., dedicato alla “Violazione degli obblighi di assistenza familiare”, il quale prevede, schematicamente, tre ipotesi criminose. Il 1° comma punisce la violazione degli obblighi di “assistenza morale”, mentre il successivo 2° comma contempla la violazione degli obblighi di “assistenza materiale”, distinta in due diverse fattispecie. Sottolineiamo, della prima fattispecie, l’inciso «comunque serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie»: non a caso si è sostenuto, ed a ragione, che la norma non è sufficientemente determinata e che, pertanto, potrebbe presentare profili di illegittimità costituzionale (in relazione all’art. 25, 2° comma, Cost.). In tale dizione la Suprema Corte include tutti quei fatti moralmente illeciti che non costituiscono (o non costituiscono più) reato: ad esempio, l’incesto senza pubblico scandalo, l’adulterio o il concubinato. D’altra parte, si deve sottolineare che il punto non sta nel comprendere quale sia la condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie tout court intesa, bensì quella condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie attraverso la quale il soggetto si sottrae agli obblighi di assistenza inerente alla potestà dei genitori o alla qualità di coniuge: i classici esempi sono quello del genitore che non presti la propria opera per l’educazione del figlio, o se ne disinteressi completamente, ovvero quello del genitore che aizzi la prole contro l’altro coniuge, e via dicendo. I due successivi delitti sono in stretta connessione fra loro. L’art. 571 c.p. (“Abuso dei mezzi di correzione o di [continua ..]
A questo punto ci si può chiedere se le varie fattispecie evidenziate siano riconducibili solo nel contesto della famiglia legittima ovvero anche in quella di fatto, ossia, in altri termini, se le relazioni affettive siano rilevanti solo in nell’ambito di tale istituto come giuridicamente definito [3]. A tale proposito si impongono alcune precisazioni. Non v’è dubbio che il legislatore del 1930, specie in un’atmosfera politicamente autoritaria, avesse della famiglia il concetto proprio dello stato etico, intesa come il tassello fondamentale dell’ordinamento, strutturata gerarchicamente nella sottomissione al marito/genitore da parte della moglie e dei figli. Così come è ben palese che la riforma del diritto di famiglia, attuata dalla l. n. 151/1975, abbia mutato radicalmente tale impostazione, al punto stesso che, a tacer d’altro, la stessa potestà genitoriale viene ora vista non più come un potere (dal quale si può essere privati, ad esempio, come sanzione accessoria), ma come un doveroso supporto in funzione dello sviluppo del minore. Peraltro, la stessa Corte costituzionale ha ripetutamente affermato che è ben vero che l’art. 29 riconosce la famiglia come una società naturale caratterizzata dalla stabilità perché fondata sul matrimonio, ma è anche vero che una famiglia c.d. di fatto, che poggia solo sulla buona volontà dei conviventi, trova comunque riconoscimento nel contesto dei diritti dell’uomo che l’art. 2 riconosce in ogni formazione sociale [4]. D’altra parte, il legislatore stesso ha congegnato alcune fattispecie a tutela del soggetto debole (si pensi alle citate aggravanti comuni ovvero agli artt. 571 e 572 c.p.), ove la prevaricazione può essere esercitata non solo nell’ambito della famiglia istituzionale, ma anche nel contesto lavorativo, di relazioni d’ufficio, di ospitalità, di coabitazione, ovvero di istruzione, di vigilanza o di custodia. Non a caso, pertanto, la stessa giurisprudenza è oramai orientata ad affermare che, ad esempio in tema di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p., deve considerarsi come famiglia ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà, senza la necessità della convivenza e della coabitazione [5]. Ne [continua ..]
Queste scarne notazioni ci conducono ad un rilievo conclusivo, tale da stimolare la riflessione. Nel diritto penale vige il principio di “frammentarietà”. E la frammentarietà si oppone alla “completezza”. In altri termini: non tutti i comportamenti umani illeciti devono essere puniti penalmente: sarebbe impossibile e porterebbe ad un controllo sociale esasperato. Bisogna, pertanto, scegliere i beni da proteggere e le modalità di lesione da ritenere penalmente rilevanti. Da quanto esposto, sia pur schematicamente, sembra, invece, che il legislatore abbia finora seguito la via della “frammentazione”. Non sembri un gioco di parole: la frammentazione si oppone all’“unitarietà”, così come la frammentarietà si oppone alla completezza. L’equivoco, dunque, non è linguistico, ma si annida nella prassi, nella tecnica legislativa: la frammentazione, consistendo nella mancanza di unitarietà, potrebbe portare all’incoerenza ed all’irrazionalità. In definitiva, spetta al legislatore, specie in una sempre auspicata riforma del codice penale, identificare, in modo coerente, razionale ed esaustivo, la portata penalistica sia del valore “famiglia” sia delle relazioni affettive: senza freni reazionari, autoritari, antiquati, da un lato; ma anche senza fughe in avanti poco meditate, dall’altro lato.