Rivista AIAF - Associazione Italiana degli Avvocati per la famiglia e per i minoriISSN 2240-7243 / EISSN 2704-6508
G. Giappichelli Editore

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Il valore dell'autonomia. Elementi di riflessione attorno al rapporto delle italiane con soldi e lavoro (di Annalisa Tonarelli (Sociologa, insegna Problemi sociali presso la Scuola di Scienze Politiche "Cesare Alfieri" di Firenze e Sociologia del Lavoro presso l’Università di Siena))


L'autrice riferendosi a fonti statistiche e ad attività di ricerca – ancora poco numerose su questo specifico tema – pone l’attenzione su alcuni fattori che contribuiscono a definire la condizione di tendenziale vulnerabilità economica delle donne, richiamando l’attenzione sia sulla diversa, e diseguale, distribuzione delle risorse economiche all’interno della famiglia che al modo in cui queste vengono gestite all’interno della coppia. I dati del­l’European Value Study mettono in evidenza come in Italia ancor oggi permangano, più che in qualunque altro paese europeo, forti retaggi di tipo culturale e valoriale che caratterizzano una società dove, indipendentemente dal genere, resta forte l’idea che il lavoro rappresenti un’esperienza più importante per gli uomini che per le donne; che occupazione e autonomia non siano tra loro interconnesse; che il coinvolgimento professionale delle madri incida negativamente sul benessere dei figli.

Making reference to statistical sources and research activities – which are still relatively few in this specific subject – the author focuses her attention on certain factors contributing to the economic vulnerability that tends to be the condition of women, casting light both on the different, and unequal, distribution of economic resources within the family, and on how these resources are managed within the couple. Data from the European Value Study show that in Italy, more than any other European country, strong legacies of culture and values persist, characterizing a society in which, regardless of gender, it is still deeply held that work is a more important experience for men than for women; that employment and independence are not interconnected with one another, and that the professional involvement of mothers negatively impacts their children’s well-being.

SOMMARIO:

1. La violenza economica come problema sociale - 2. Se è considerato “normale” lasciare “a lui” le questioni di soldi - 3. Una ricchezza diseguale - 4. Vulnerabilità occupazionale e autonomia all’interno della coppia - NOTE


1. La violenza economica come problema sociale

Il dibattito attorno al tema della violenza di genere mette sempre più decisamente in evidenza come esista una relazione tra l’indipendenza economica delle donne e il loro essere più o meno vulnerabili nei confronti di situazioni di abuso fisico, psicologico e sessuale da parte degli uomini, soprattutto in ambito familiare. Al contempo, quello della violenza economica sta emergendo come un tema specifico e di crescente interesse. All’interno della coppia questa si caratterizza come quella forma di violenza che passa attraverso il controllo delle risorse finanziarie familiari e del ricatto riguardo alla disponibilità del denaro. Nello specifico, si va da un’ingeren­za sulle spese, all’esclusione della compagna dalla gestione del patrimonio, dalla richiesta di lasciare il lavoro, al dilapidare il capitale di famiglia o all’indebitarsi all’insaputa della donna. Si tratta di uno dei tanti modi per agire una forma di dominio, che spesso si associa alle altre forme di violenza di cui favorisce l’insorgenza. Nell’ambito di quella che può essere definita la spirale della violenza di genere, la dimensione economica risulta, dunque, estremamente presente e rappresenta l’innesco più subdolo usato per isolare una donna facendole perdere l’indipen­denza. Dai risultati della ricerca WE GO – Women Economic Indipendence & Growth Opportuniy (2017) realizzata in Europa su un vasto campione di donne, emerge come il 53% di esse dichiari di aver subito qualche tipo di violenza economica. A questo proposito è necessario evidenziare come, sulla base della letteratura esistente su questo tema, sia possibile distinguere tra tre diversi livelli a cui il fenomeno si manifesta. Un primo livello, che potremmo definire di base, è caratterizzato dal controllo e dall’omissione totale dalla gestione delle risorse finanziarie; il secondo grado ricomprende quelle situazioni in cui l’uomo, sia o meno l’unico soggetto titolare di un conto, limita con più forza la libertà di scelta della donna negandole i soldi anche per i beni di prima necessità; un ultimo livello, che sconfina nella vera e propria azione delinquenziale, si ha quando la donna si trova costretta ad erodere il proprio patrimonio o a firmare documenti finanziari in assenza di consapevolezza. Di fronte alla nuova [continua ..]


2. Se è considerato “normale” lasciare “a lui” le questioni di soldi

In chiusura di un articolo comparso sul sito SoldiOnline dal titolo “Uomini e donne: differenze nella gestione del denaro”, si afferma che le donne per quanto «insoddisfatte del proprio modo di gestire i soldi, continuano imperterrite nelle loro abitudini “rovinose” mentre gli uomini, più bravi a gestire il denaro, sono però più insoddisfatti» [4]. Si tratta di uno degli innumerevoli e­sempi che potrebbero essere citati per richiamare l’attenzione sulla persistenza di uno stereotipo che vuole le donne, in quanto tali, incompetenti e inaffidabili in materia di gestione economica finanziaria. Tale visione, che permea ancora profondamente la nostra società, starebbe alla base di una tendenza, ancora molto diffusa, a naturalizzare la delega agli uomini rispetto al controllo della sfera economica e finanziaria come se si trattasse di una scelta inevitabile e fatta nell’interesse generale. D’altronde, come ricorda lo stesso articolo sopra citato, «nel genere femminile la spesa viene vista come il modo di celebrare qualcosa di bello, o di riscattarsi da qualcosa di brutto, non tanto come l’acquisto di qualcosa di necessario». Sulla base di logica, togliere alle donne il controllo delle risorse economiche rischia di passare per un modo di tutelare il benessere familiare dalla loro “innata” tendenza a scialacquare. Eppure, come mostrano indagini realizzate negli Stati Uniti, se sono le donne a gestire i soldi all’interno della famiglia i figli hanno il 20% di possibilità in meno di vivere in condizione di povertà a parità di reddito [5]. A questo proposito non deve ingannare il fatto che molte ricerche tendano a mettere in risalto il maggior coinvolgimento delle donne nella gestione quotidiana dei soldi né il fatto che venga delegata loro la conduzione del menage familiare anche per quanto riguarda le spese correnti [6]. Può essere in proposito utile richiamare la distinzione operata da Bettio e Caretta [7] tra gestione della attività legate alla ricchezza (gli asset finanziari, gli immobili e il conto cointestato) e la gestione delle attività routinarie. Se le prime, che si inscrivono al­l’interno di un rapporto di potere tra i coniugi, vedono primeggiare gli uomini, le donne sarebbero, invece, più coinvolte nelle [continua ..]


3. Una ricchezza diseguale

La maggior parte delle fonti statistiche che affrontano il tema della ricchezza e dei consumi adottano come unità di rilevazione la famiglia, rendendo difficile l’utilizzo dei dati raccolti per caratterizzare le differenze di genere nel rapporto alla ricchezza. A questo proposito, non dobbiamo dimenticare che le stesse categorie utilizzate per descrivere la realtà non sono neutre; come ogni altra costruzione sociale riflettono gli interessi e le sensibilità del momento [12] e, evidentemente, poter dar dettagliatamente conto della diseguale distribuzione della ricchezza in base al genere, non viene ancora percepita come una priorità. In assenza di specifiche attività di ricerca, le fonti ufficiali su questo punto restano, dunque, piuttosto scarse e spesso indirette. Dall’Indagine della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie italiane è, ad esempio, possibile ricostruire come, a fronte di un generale peggioramento della condizione economica registrato nel corso dell’ultimo decennio [13] si conferma il numero elevato di nuclei caratterizzati dalla presenza di un unico percettore di reddito (53%). Se, nel caso si tratti di donne, ciò contribuisce ad inquadrare una condizione di più elevato rischio di povertà, quando, al contrario, l’unico percettore è un uomo ne deriva, per la donna, una condizione di dipendenza economica dal partner. Questo dato si inserisce all’interno di un quadro in cui la componente femminile risulta penalizzata dal punto di vista della distribuzione della ricchezza: il reddito medio imponibile della componente femminile della popolazione resta infatti, anche per il 2016 [14] inferiore dal 31% rispetto a quello maschile mentre, riguardo alla proprietà immobiliare le donne rappresentano il 48% dei proprietari e il 50% tra i titolari di un contratto di locazione. A questi dati generali va ad aggiungersi il fatto che ben il 23% delle donne italiane non ha un conto corrente (in alcune parti d’Italia si arriva al 40%) e solo il 21% ne ha uno personale. Per dare un ordine di grandezza [15], la percentuale di donne italiane che possiede un proprio conto in banca (83%) è largamente inferiore a quella registrata nella stragrande maggioranza dei Paesi OECD dove la quota raggiunge, o è molto prossima, al 100%. Ciò che tuttavia colpisce di più dalla lettura [continua ..]


4. Vulnerabilità occupazionale e autonomia all’interno della coppia

Questa valutazione viene evidentemente fatta senza considerare che, come si è detto, lavorare rappresenta un fattore di protezione per la donna nella misura in cui il suo reddito permette alla famiglia di mantenersi al di sopra della soglia di povertà oltre la quale la violenza diventa un rischio ancor più reale. Una donna che non lavora, ammesso che non disponga di altre rendite, dipenderà per la propria sussistenza dal salario del coniuge; allo stesso tempo, come si è detto, favorirne l’uscita dal mondo del lavoro può rappresentare una delle modalità attraverso le quali si manifesta la violenza economica esercitata in ambito familiare. Ci sembra dunque opportuno approfondire, attraverso l’analisi di alcuni indicatori, il problema occupazionale per come si manifesta nel nostro Paese. Benché con la fine del 2016 la quota di donne tra i 15 e i 64 anni occupate abbia più che recuperato il livello del 2008, il suo valore resta inferiore di circa 18 punti rispetto a quella degli uomini; se il tasso di occupazione femminile arriva al 48% ciò significa che oltre la metà delle donne italiane dipendono da altri per vivere. Questo dato va inquadrato sia all’interno di una condizione di debolezza quantitativa e qualitativa della domanda di lavoro che nell’ambito di un’endemica tendenza all’inattività da parte delle donne italiane. Per quanto riguarda il primo aspetto basta ricordare come le donne non siano solo meno occupate, ma come, a parità di competenze e di credenziali educative, dispongano di occupazioni peggiori rispetto agli uomini per quanto riguarda la durata dei contratti, la quota di part time involontario, la maggiore volatilità rispetto agli effetti prodotti dall’innovazione tecnologica [19], le retribuzioni. A questo proposito, va ricordato che la differenza salariale varia dal 15% al 40% a seconda dei settori. Nel pubblico e ai minimi salariali, ossia là dove le donne sono più impiegate, la differenza è quasi irrilevante, ma se si sale nella gerarchia, e soprattutto se si passa dal pubblico al privato, la differenza può raggiungere il 40% dello stipendio a parità di mansione svolta. Uno sguardo, infine, al mondo imprenditoriale. Istat [20] rileva come un contributo importante alla nuova imprenditoria provenga proprio dalla componente femminile: è donna il [continua ..]


NOTE